C’è uno strano rapporto tra vino e territorio. È un rapporto denso, quasi simbiotico. Non tanto, o forse non solo, per quel che riguarda le qualità fisiche che un determinato terreno – con i suoi minerali, i microclimi, le esposizioni – riesce a trasmettere a un vino, quanto per la relazione identitaria che gli abitanti di quella determinata zona sviluppano con il proprio vino. È quello che da 20 anni racconta Vinibuoni d’Italia, la guida del Touring Club Italiano curata da Mario Busso e Alessandro Scorsone dedicata ai vini autoctoni italiani.

Siamo il Paese dei campanili, lo saremo sempre ed è inutile pensare il contrario, e il vino, specie quello quotidiano che non manca mai sulla tavola, è uno dei simboli “campanilistici” per eccellenza. Perché è uno dei prodotti della terra che dà più orgoglio agli abitanti, forse perché con il suo lento maturare nei campi, il piacevole fermentare nei tini, la lunga gestazione in botti e bottiglie meglio di altri esprime e racchiude il paesaggio dove è stato coltivato. «Lo raccontano decine e decine di storie italiane, tante quante sono i vitigni del nostro Paese – almeno 400 –, terra di una diversità di cultivar unica al mondo» spiega Busso, da sempre curatore della guida. «Se uniamo i vitigni utilizzati in vinificazioni in tre Paesi di antica produzione vinicola come Spagna, Francia e Grecia non arriviamo alla varietà che esprime il nostro territorio».

Ma perché dedicare una guida esclusivamente ai vitigni autoctoni? «Quando per la prima volta venne pubblicata dal Touring questa guida il paesaggio viticolo italiano si stava allontanando dalla storia enologica italiana. Nei disciplinari che regolano le varie doc si iniziavano a prevedere aggiunte di vitigni internazionali – merlot, cabernet, chardonnay – per andare incontro al gusto imperante. Così tutti i vini iniziavano ad assomigliare al prodotto francese che poi andava incontro al gusto americano, il grande mercato» ricorda. Poi, come spesso accade, furono degli stranieri a dare l’idea di valorizzare meglio i prodotti italiani. «Dei giornalisti enologici americani ci dissero: “Siamo stufi dei soliti vini, voi avete tanta ricchezza, tanti vitigni unici su cui concentrarvi, perché non fate qualcosa per farli conoscere?”. E così nacque un libro che curai, Vigneto Italia, nato per presentare la specificità dei vitigni autoctoni coltivati sul territorio italiano, raccontando dove nascono e chi li fa. Il passo suggestivo fu la prima edizione di questa guida, una vera scommessa in uno scaffale che già era zeppo».

Un’idea a suo modo talebana «anche se non rinneghiamo che i vitigni internazionali sul nostro territorio diano ottimi vini, penso al pinot nero in Alto Adige». Un’idea che ha funzionato. «Il primo anno degustammo 6mila vini, questa volta 32mila. Il che vuol dire non solo che la guida è cresciuta come notorietà, ma anche che in questi venti anni è aumentata la produzione di vini autoctoni. E in questo qualche merito ce lo prendiamo, visto che abbiamo interpretato un cambiamento del mercato che poi è andato in questa direzione» spiega. Così in vent’anni alcuni vitigni che erano praticamente scomparsi, come il ruché piemontese, il bianco di Greco o il moscato di Trani, oggi sono presenti nelle enoteche e nelle carte dei ristoranti. Vini che spesso sono diventati traino di un turismo territoriale che guarda ai beni architettonici, ma anche al paesaggio, al gusto e alla storia» spiega Busso. E poi, visto che il vino, come la cultura, non guarda i confini nazionali, nelle ultime edizioni sono stati aggiunti vini sloveni e croati, «perché nel Collio sloveno si vinifica, anche se in modo diverso, la stessa ribolla gialla principe dei bianchi friulani». Non rimane che aprirsi al Canton Ticino.
 

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