Quando viaggiare non è un’opzione praticabile per i motivi che tutti sappiamo ed è giusto fermarsi e stare in casa finché l’onda non sarà passata. E dalla poltrona del salotto, dalla sedia in balcone, dal comodo del proprio divano si può comunque continuare a muoversi con la mente mettendo in pratica quello che i britannici chiamano “armchair travel”, ovvero la lettura di libri di viaggio. Reportage che permettono una innocente evasione in compagnia di chi è partito per saziare la sua curiosità o lo spirito d’avventura ed è tornato per raccontarlo. Racconti di prima mano di mondi lontani e diversi, esperienze ricche di passione, empatia e divertimento spesso in zone periferiche che magari mai visiterete, ma che stuzzicano fantasia e voglia di scoprire. E poi, chi lo sa, non è detto che a emergenza finita, non si decida di partire con un libro sotto braccio per visitare i luoghi di cui si è letto in questi giorni...
Ecco la diciannovesima tappa.
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Ci sono alcuni libri che andrebbero letti anche solo per quelle quindici righe che valgono davvero. Per cui se in un volume di 210 pagine ce ne sono almeno 50 che andrebbero lette e rilette, sottolineate con la matita blu, e magari studiate nelle scuole di giornalismo alla voce «come si scrive un onesto reportage di viaggio» allora ecco che il libro va preso in considerazione. 
 Sabbie Bianche dell’inglese Geoff Dyer (traduzione di Katia Bagnoli, pag. 211, 20 €, Il Saggiatore) non è una raccolta di reportage di viaggio, anche se è una raccolta di dieci testi (saggi? racconti?) pubblicati qua e là su varie riviste, dal New Yorker a Harper’s magazine fino al bimestrale britannico Granta. Non è neanche un romanzo, anche se un personaggio c’è, ed è Dyer stesso, e un filo narrativo apparente esiste. È qualcosa di ibrido che parla di luoghi, di viaggi e delle sensazioni legate a questi luoghi e questi viaggi. Si parla di Pechino, della Polinesia, dello Utah, di White Sands nel New Mexico e, soprattutto, di California dove l’inglese Dyer a un certo punto si è trasferito a vivere: Los Angeles, e le case di Adorno e Thomas Mann a Hollywood.
I RACCONTI DI GEOFF DYER
Quali sono le 50 pagine assolutamente da non perdere? Due capitoli interi: «Dove? Che cosa? Dove?», in cui si racconta di un viaggio in Polinesia sulle tracce di Gauguin; «Notte boreale», una deludentissima sortita nelle gelide Svalbard a caccia di imprendibili (e noiose) aurore boreali diventano l’esempio di come andrebbe scritto un qualunque pezzo di viaggio senza nascondere alcunché.
Ciò che lega i due capitoli in questione (il resto del libro leggetelo, eh, specie se vi piace l’arte contemporanea e le riflessioni intelligenti sulla vita) è la delusione, ovvero la capacità di ammettere che quel viaggio non è stato quel che ci si aspettava ma il suo esatto contrario. Un fallimento rispetto alle aspettative, fallimento talmente eclatante che più volte Dyer cerca di porre fine al suo stesso andare perché si sente come in trappola nel luogo dove tanto aveva voluto andare. Ciò non di meno da una delusione trae un racconto magistrale, magistrale perché non nasconde nulla, ma anzi esplicita tutto.
TAHITI, CHE TRISTEZZA !
Così se a Tahiti è fantastico essere accolti con una collana di frutti tropicali, ecco che lo stesso gesto è mercificato e preconfezionato e dunque i fiori avrebbero potuto anche essere di plastica. Mentre la vista magnifica dal Boutique hotel di turno è magnifica solo se non giri lo sguardo a destra e sinistra e vedi la fila di balconi in cui coppie di turisti (a Tahiti ci si va sempre in coppia) sospirano con un calice in mano a una vista splendida e curata, tanto curata che a Dyer «persino l’oceano sembra curato, che se facesse parte di un campo da golf acquatico con accesso riservato agli ospiti dell’hotel».
Il che, dopo giorni di delusioni perché nulla è più come l’aveva visto Gauguin, neanche la luce ecco che permette a Dyer di confessare la verità inconfessabile che almeno una volta ha pensato chiunque si metta in viaggio: «Siamo contenti di aver fatto questo viaggio anche se abbiamo trascorso tanta parte del nostro tempo a rammaricarci di averlo fatto». Perché quando siamo in un luogo accade spesso di «essere costantemente perseguitati di essere altrove (…) meglio se vicino casa».
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