Che in Trentino si mangi bene è cosa nota nel mondo da quasi cinque secoli. Il Concilio di Trento, infatti, rischiò di passare alla storia più per i sontuosi banchetti allestiti per vescovi e principi, cardinali e servitù, che non per le decisioni faticosamente raggiunte in 18 anni di lavori, fra il 1545 e il 1563. Alcuni di quei menù sono entrati nella storia della gastronomia. Giovedì 6 agosto 1545, per esempio, quando all’inizio del Concilio mancavano ancora quattro mesi esatti, 170 prelati già a Trento festeggiarono la nascita del figlio del re di Spagna prima con una messa, poi con un pranzo in cui il celebre cuoco pontificio Bartolomeo Scappi servì a ogni convitato oltre venti specialità suddivise in sette portate, e alla fine furono spazzati via 180 polli, 40 capponi, 80 anitre, 60 oche, 50 conigli, mezzo cervo, due vitelle e mezza, due castrati, mezzo bue, otto capretti, 150 meloni, e naturalmente piatti a chilometro zero come il pasticcio di cervo, il salume di salsicione e i tommacelli, polpette di carne ben note nella cucina locale.
Chissà quanto di questa prelibata materia prima proveniva dalla Val Rendena, dove la cultura delle carni insaccate e dei formaggi d'alpeggio è da sempre fortissima. La tradizione della norcineria in particolare pare risalire al XIX secolo, quando i contadini locali durante l'autunno e l'inverno scendevano a lavorare nella Pianura padana. Molti di loro andavano a lavorare presso i salumai lombardi, soprattutto quelli del Mantovano, dove impararono un'arte che poi diffusero anche nei paesi d'origine. Con qualche variante locale, come l'aggiunta dell'aglio, come avviene nel Salame di Caderzone all'aglio, nel Cacciatore di Caderzone all'aglio, nella Salamella di Caderzone all'aglio e nella Pancetta arrotolata di Caderzone all'aglio. Tutte glorie locali che hanno reso famosi i “caderzoni” in tutto il Trentino. Prodotti oggi facilmente riconoscibili dal giglio rosso, simbolo della comunità locale, e il cui segreto sta nell'arte di impastare la carne con spicchi d'aglio messi a bagno nel vino rosso.
Come gelosi di tanta abbondanza carnivora, i formaggi della Val Rendena non sono da meno: di alpeggio o no, traggono il massimo beneficio da una zootecnia rigorosamente biologica che origina latte e prodotti caseari di assoluta qualità: la Spressa, il Vacarsa e il Razza Rendena. La Spressa (il nome deriva dal termine dialettale “spress” che significa pressato, spremuto) è un formaggio magro e leggero, prodotto da latte cui viene tolta la panna. Si tratta del classico formaggio della Val Rendena, in passato prodotto in modo artigianale prima di far salire le vacche all'alpeggio. La pasta è compatta ed elastica, il colore bianco o paglierino chiaro con occhiatura sparsa. C'è poi il Vacarsa, un formaggio a pasta molle, prodotto solo con latte crudo e lasciato stagionare sei mesi. Il Razza Rendena è invece un formaggio giallo paglierino a pasta morbida, stagionato 4 mesi e dal gusto delicato. Si ottiene mescolando il latte della mungitura serale, scremato per affioramento, con quello della mungitura del mattino lasciato intero.
Come dice il nome stesso, è un formaggio prodotto esclusivamente con latte delle vacche locali di “Razza Bruna delle Giudicarie - Razza Rendena” che trascorrono gran parte dell'anno negli alpeggi della Val Rendena, e che anche in stalla sono alimentate con fieno locale. Si tratta di una razza bovina autoctona, di taglia piccola, a mantello color castano (nei maschi può essere quasi nero). È derivata da pregiati esemplari di razza Bruna importati nel 1712 dalla Svizzera in Val Rendena, e poi incrociati con bovini locali, sino a selezionare una razza locale attentamente protetta dagli allevatori tramite i Consorzi di Monta. Fu così che nel XIX secolo in Rendena e Giudicarie si arrivò a contare ben 16.000 capi. Nel XX secolo però errori zootecnici imposti dall'alto hanno messo a repentaglio la sopravvivenza della razza Rendena, che solo dal 1981, con la costituzione dell'Associazione Nazionale degli allevatori di Razza Rendena (A.N.A.R.E.), si è rivitalizzata. Oggi Caderzone Terme conta il maggior numero di capi di razza Rendena (circa 800) sui circa 4500 esistenti nell'arco alpino. E in paese si è anche innalzato un monumento in ferro battuto alla Vacca Rendena, che nel 1996 l'artista Luciano Zanoni ha raffigurato mentre allatta un vitello.
Tornando alle specialità gastronomiche, tanta dovizia di salumi e formaggi pare voler smentire la convinzione che la cucina di montagna sia povera. In realtà, persino la polenta, che dal Seicento ha sfamato generazioni di trentini, oggi ambisce a patenti di raffinatezza: basta per esempio che sia fatta con la pregiata farina gialla di Storo, ricavata da un’antica varietà di mais dai chicchi rosso corallo che è coltivato nella Valle del Chiese, pochi chilometri a sud di Caderzone Terme. Una buona farina è ingrediente fondamentale anche dello smacafàm (“ammazza-fame”), torta salata arricchita da luganega, lardo e pancetta affumicata, ora tornata alla ribalta come stuzzichino per accompagnare il rito dello spritz. Allo stesso modo, oggi cuochi e casalinghe rendono sempre più raffinate e leggere ricette molto trentine come i canederli, la minestra d’orzo, il tortèl di patate o, per mettere in tavola piatti diffusi in particolare nella Val Rendena, come la polenta di patate, il pastròc (pasticcio) di patate, la minestra di latte e farina detta fragaròi. E quanto ai dolci, sorprendente è la torta di erbe, dove il ripieno di verdure (coste) e uova è addolcito da amaretti, grappa e zucchero, ma diffusa è anche la torta di fregolòti, la cui somiglianza con la sbrisolona fa supporre che, al pari dei salumi, sia stata importata in Rendena dai lavoratori stagionali che scendevano a lavorare nel Mantovano.
Testo: Roberto Copello - Foto: Comune di Caderzone Terme e caderzone.net (salumi e formaggi)
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