Articolo di Tino Mantarro

Sul far del mezzogiorno del 29 giugno 1440 le truppe milanesi dei Visconti si preparavano alla battaglia. Pare facesse caldo. Accampati nella piana della Valtiberina, dietro gli spalti delle mura di Borgo San Sepolcro un migliaio di soldati guidati da Niccolò Piccinino aspettava solo un segnale per iniziar lo scontro. Con loro un nutrito gruppo, oltre duemila uomini, di biturgensi. Dall’altro lato una coalizione con 4mila soldati del Pontefice, altrettanti fiorentini e trecento cavalieri della Serenissina Repubblica di Venezia oltre una manciata di volontari di Anghiari. La battaglia si combattè sotto le mura d’Anghiari e andò avanti per ore, qualcuno dice addirittura tutta notte, tra nitrire di cavalli e imprecazioni, fendenti e assalti, carne e sangue, avanzate e ritirate. La storia che diventa leggenda racconta che alle sette di sera i fiorentini conquistarono lo stendardo nemico e un messo corse verso le mura d’Anghiari brandendolo. Sia come sia vinse la coalizione che vedeva fiorentini e papalini alleati, per Macchiavelli ci fu un morto soltanto, per gli storici circa 900. Ma la Battaglia di Anghiari non fu una battaglia come tante per certi versi cambiò le sorti del Rinascimento almeno per Firenze che del Rinascimento è stata la culla, e incidentalmente segnò per secoli il confine meridionale tra i possedimenti di Firenze e Stato Pontificio.

E che non fu una battaglia come tante si capisce arrivando ad Anghiari, borgo Bandiera Arancione del Touring Club Italiano, da Arezzo. Passando per la strada vecchia che si inerpica tra le montagne, all’ingresso del paese un cartello turistico segnala: Benvenuti ad Anghiari, paese della battaglia. Nel compatto centro medievale c’è anche un attivo museo interamente dedicato alla battaglia. «In effetti gli anghiaresi sono molto orgogliosi sia del loro paese sia della loro storia, storia scritta sui muri delle case e negli angoli delle strade» spiega Gabriele Mazzi, di professione storico e direttore del museo dedicato alla Battaglia e ad Anghiari, ospitato a Palazzo Marzocco. Ma guai a dire che si tratta di un museo di storia locale, «perché la battaglia non era per nulla locale, è stato un momento fondamentale per gli equilibri politici dell’Italia quattrocentesca e ha segnato i confini del Granducato di Toscana per secoli» spiega Mazzi. Il nostro museo «racconta ovviamente la storia del paese, dalla preistoria all’antichità romana fino all’età moderna, ma si concentra su quell’episodio storico fondante per la nostra identità». Così negli ambienti del museo ci si imbatte in una collezione d’armi antiche che non sono quelle con cui si sfidarono fiorentini e milanesi, ma introducono nel clima dell’epoca. Come serve a farsi un’idea piuttosto concreta della battaglia il grande plastico, di quelli popolati di piccoli, precisi soldatini che riproduce le forze in campo in quell’epica giornata di cinque secoli fa.

Foto di Gianni Congiu

«Anche se – ammette Mazzi – la fama della battaglia forse è dovuta più alle vicende della rappresentazione che ne fece Leonardo da Vinci a Palazzo Vecchio che alla sua storia fattuale» spiega Mazzi. La notorietà della Battaglia di Anghiari infatti più che alle vicende belliche è legata al genio di Leonardo da Vinci. Anche se del grande dipinto di Leonardo a Palazzo Vecchio non si ha traccia se non nelle varie versioni successive.  «A riprova dell’importanza storica dell’evento per le vicende di Firenze – spiega Mazzi – nel maggio 1503 Leonardo ricevette l’incarico di rappresentare lo scontro di Anghiari nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio». Dopo una fase di studio, nei primi mesi del 1504 Leonardo iniziò a realizzare il grande cartone preparatorio e mise mano ai lavori l’anno successivo, andando avanti fino al 1506, quando abbandonò l’impresa, forse perché non soddisfatto della tecnica che aveva usato (l’encausto) e del risultato. I cartoni preparatori son tutto quel che rimane dell’opera, e oggi sono conservati a Budapest. Anche se si sa per certo che una parte dell’affresco venne dipinta, perché la descrivono in moltissimi, grazie ai quali sappiamo che sulla parete erano visibili i famosi “cavalli di Leonardo” immortalati nel pieno dello sforzo fisico del combattimento. Erano, perché circa sessant’anni dopo la decorazione del salone venne rifatta da Giorgio Vasari e dunque l’originale è andato perso. Quel che si conosce è legato alle copie che artisti dell’epoca fecero, tra queste la più famosa è la riproduzione di Rubens, conservata al Louvre. Anche se c’è sempre chi non si dà per vinto ed è sicuro che il dipinto esista ancora. Così nel 2012 una campagna di studi promossa da National Geographic ha cercato nella sala di Palazzo Vecchio tracce del dipinto leonardesco sotto quello di Vasari, ma il mistero rimane.

Ed è un mistero ampiamente raccontato nelle sale del museo anghiarese, dove un’intera sala è dedicata a spiegare le vicende del dipinto grazie a una animazione proiettata sulle pareti. Il museo è anche l’unico centro di documentazione sull’opera, e grazie a istallazioni di realtà aumentata permette di osservare nei minimi dettagli l’opera e confrontarla con le schede digitali di tutte le copie conservate nei più importanti musei del mondo. Perché la memoria è un vizio contagioso che va coltivato, ed è giusto farlo bene, come al Museo della battaglia di Anghiari.

Per maggiori informazioni, visita il sito del museo

Foto di testata di Mario Llorca

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