Il monte Amiata è un vulcano che ci prova a non assomigliare a un vulcano. Spento da millenni è coperto da castagni e faggi che arrivano fin dove arrivano gli occhi quando li alzi verso il cielo. Alto oltre 1.700 metri, in estate sembra una di quelle visioni da isola tropicale: un cono coperto di verde e percorso da fiumi che si stacca dalla pianura. In autunno, prima di diventare spogli, faggi e castagni trascolorano in un iride di sfumature del rosso, del granata, del marrone e infine del giallo. Una distesa di colori intensi, specie all’imbrunire, quando dal Tirreno rimbalzano gli ultimi raggi di sole, che il vulcano che fu sembra prendere quasi vita, riaccendendosi.

Ma così non, l’Amiata è spento e spento rimane. Ad accendersi invece sono fuochi e camini, dove abbrustoliscono eterne caldarroste. Il modo più semplice e immediato di consumare le castagne, prodotto principe del Monte Amiata e di Santa Fiora, Comune Bandiera Arancione del Touring Club Italiano che si trova alla sue pendici, sul versante che si affaccia verso la Maremma. Talmente importanti per l’economia del borgo, per secoli le castagne hanno costituito pane e companatico. «Ne ho mangiate di castagne da bambina. Mia madre a tavola metteva pere piccole, patate e poi castagne. Bollite, o come polenta, quando c’era farina nel cassone» racconta la signora Deanna Savelli Ballerini, 79 anni, da 52 cuoca all’albergo il Fungo.

Terra di minatori e di una fatica immensa – a Santa Fiora e negli altri paesi della zona c’erano miniere di cinabro, il solfuro da cui veniva ricavato il mercurio –, l’Amiata è da sempre anche terra di castagneti. C’è un detto locale che come sanno fare i detti spiega tutto senza bisogno di aggiunger altro: «Santa Fiora: pan di legno, e vin di nuvoli». Castagne che diventano farina e acqua, in abbondanza. Il resto è sudore e fatica. «Storicamente tutto quello che si ricava dalla castagna era fondamentale per il sostentamento della popolazione, i cerali su queste montagne erano marginali» spiega Antonio Parracciani, veterinario e coltivatore di castagni. «Le castagne servivano all’uomo, ma anche per alimentazione del bestiame, maiali ma anche pollame, cui andavano quelle che non erano più commestibili. Per conservarle a lungo si essiccavano e si  trasformavano in farina, che diventava polenta, piatto principale per mesi e mesi. Spesso la polenta mescolata con le patate che si coltivavano promiscuamente» aggiunge. E questo era, pranzo e cena.
«Anche nel secondo dopoguerra la castagna era il pane dei santafioresi» racconta Giulia, che si occupa del locale ufficio del turismo. Sinonimo di dignitosa povertà la castagna qui come ovunque in Italia è passata un po’ di moda, buona per insaporire l’autunno ma non più considerata un alimento per sfamarsi 365 giorni l’anno. «E invece, soprattutto nell’ultimo decennio, è tornata d’attualità, tutta la vogliono e tutti ne parlano». Vuoi per le sue proprietà nutritive, vuoi per la riscoperta dei prodotti “di una volta” che caratterizzano i territori italiani. «Quando ho aperto il ristorante tutti volevano tagliatelle e tortelli, carne e funghi, polenta gialla, ma non certo di castagne. Quella la facevo per me e mio marito» racconta la signora Deanna. Oggi invece le castagne nel suo menu ci sono tutto l’anno.

Così a Santa Fiora si è sviluppato anche un turismo legato alla civiltà della castagne. «Il momento clou ovviamente sono le sagre d’autunno» racconta Giulia. «La Festa del Marrone santafiorese per noi è l’evento più importante anche se quest’anno abbiamo dovuto rivedere la festa e adattarci alla situazione, visto che normalmente tutto è incentrato sulla gastronomia e invece abbiamo dovuto inventarci altro». Dove altro significa guidare i turisti a scoprire il centro storico del paese – un castello medievale appartenuto agli Sforza, quelli di Milano, una piazza principale da cui si scende tramite viuzze e scalate verso i terzieri inferiori, una peschiera del XVI secolo all’ingresso di un parco – e la cultura delle castagne. Come? «Raccogliendole direttamente in uno dei parchi comunali del paese» spiega Giulia. Già perché i castagni fanno così parte della cultura locale che anche i due parchi comunali che si trovano tra le case dell’abitato son ricchi di castagni da frutto e tutto possono liberamente raccoglierle. «Un tempo erano di proprietà degli Sforza, ma venivano adibiti ad usi civici e tutti potevano servirsi. Negli anni son passati al Granduca di Toscana e da lui al Comune di Firenze che formalmente li ha posseduti fino a un decennio fa, ma oggi son del Comune e dunque di tutti i cittadini» spiega Antonio Parracciani. «E tra l’altro sono marroni, la varietà più pregiata tra le tre che costituiscono la Igp della castagna dell’Amiata« precisa.

Da vent’anni i duemila piccoli produttori del cono dell’Amiata infatti sono riusciti a farsi riconoscere l’Indicazione geografica protetta per le loro castagne. «Negli altri paesi le condizioni climatiche sono ottime per la crescita della varietà cecio e castagna rossa, che vengono usate soprattutto per la trasformazione. Mentre qui a Santa Fiora il terreno vulcanico ricco di potassio e l’abbondanza d’acqua sono favorevoli alla crescita dei marroni. Che è la varietà migliore per il consumo fresco, sia per sua dolcezza che per la pezzatura più grande e perché sono facili da sbucciare per poi essere consumate come caldarroste oppure bollite» racconta Parracciani, che fin da piccolo ha sempre avuto la passione per la natura e anni fa ha acquisito un vecchio castagneto abbandonato, giusto sotto la peschiera. Ma tutto intorno al paese ci sono castagneti da frutto, perché un tempo si piantavano a ridosso delle case, per evitar di dover portare i frutti per percorsi troppo lunghi. Anche se qui a Santa Flora negli anni Sessanta c’è stata la trasformazione dei castagni da frutto in ceduo, per il taglio e la legna. Ma oggi c’è un ritorno, anche se per vederli a frutto ci vogliono parecchi anni, una ventina. Ma è un investimento sulle generazioni future» spiega.

In mezzo ai castagni vive anche la signora Deanna. «In un borgo di case ormai vuote immerse nel castagneto» racconta. Casa dove cucina ancora le antiche specialità che le ha insegnato sua madre. «Che era nata nel 1904 e ci allevati a castagne, perché quello c’era». Oggi i piatti a base di castagne li cercano tutti, specie la polenta «che deve essere bella, rimestata bene altrimenti gli vengono i grumi, e soda, perché si deve tagliare con il filo, come una volta». E viene servita con ricotta o con salsicce, come da tradizione, «ma anche con le animelle e i fegatelli». E certo non mancano i dolci: dal castagnaccio fatto con le noci, alle monne con castagne sbucciate da crude e poi lessate con finocchio e sale. E poi le minestre della sera. «Come le brodolose, che piacciono tanto a me. Una minestra di castagne, semplice. Sai come si fa? Metti ad arrostire nel forno le castagne, tagliate, con corteccia incisa, a 200 gradi per venti minuti. Poi  le sbucci per metterle a cuocere con acqua - un paio di litri e sale grosso –, per un’ora e mezza. Poi un poco vengono schiacciate con la forchetta e ne viene fuori questa zuppa un poco dolciastra, per questo ci si mette sopra il formaggio, il grana. Una bellezza» sospira. Già, una bellezza: proprio come i castagneti del monte Amiata.

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Testo: Tino Mantarro - Foto: pagina FB SantaFioraTurismo (header e foto 2 nel testo), Ido Vetuli (foto 1 nel testo), Cesura Luca Santese (foto 3,4,5 nel testo)

Articolo realizzato nell’ambito del progetto RESTA! –finanziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali – Direzione Generale del Terzo settore e della responsabilità sociale delle imprese-Avviso n.1/2018