Intervista tratta da Touring magazine di settembre 2025, a cura di Marco Mottolese
Ha venduto milioni di copie dei suoi libri, in Italia e all’estero (è stato tradotto in trenta Paesi). Ha esordito giovanissimo sulla scena letteraria italiana con La solitudine dei numeri primi con cui ha vinto, nel 2008, a soli 26 anni – il più giovane vincitore di sempre –, lo Strega, il più prestigioso premio letterario italiano. Da questo romanzo è stato poi tratto nel 2010 il film omonimo interpretato da Luca Marinelli, per la regia di Saverio Costanzo.
Ci incontriamo in un bar del rione Monti di Roma dove abita per farci raccontare la sua passione per i viaggi. Giordano ha sempre amato viaggiare ma, ovviamente, c’è un “prima” e un “dopo” il Premio Strega, perché viaggiare da giovane dottorando in fisica e poi trovarsi a essere invitato ovunque in qualità di scrittore di successo ha cambiato le cose,
e non poco, anche sul suo modo di viaggiare.
Parliamo di viaggi in Italia. Le piace girare nel nostro Paese?
Io sono di Torino. Per molta parte della mia vita mi sono sentito più europeo che italiano. Conoscevo meglio alcune parti d’Europa che l’Italia. Prima di girare per presentare il mio primo libro non ero mai stato in Sicilia, né in Puglia né in Calabria. Non solo il Sud mi era sconosciuto ma conoscevo poco anche il resto del Paese. A malapena conoscevo Roma. In maniera istintiva mi spostavo fuori dall’Italia. Poi, con i tour legati al libro in tutte le città grandi e piccole della Penisola, paradossalmente, ho preso contatto con il mio essere italiano. Prima potevo sentirmi forse europeo ma, ancor di più, apolide. Non mi sentivo localizzato. Ora che l’Italia l’ho conosciuta per davvero sento finalmente in me la geografia italiana, l’ho assorbita. Ho preso casa in Puglia e vivo a Roma. Le prime volte che venivo nella capitale provavo un senso di venerazione, uno stordimento.
Non mi direi però “ecco, Paolo, questa è l’Italia”. Preferisco dirmi che, grazie all’aver finalmente conosciuto il nostro Paese, posso pensare: “questo sono io”. Grazie ai libri ho allargato il mio raggio di appartenenza. Ho visitato centinaia di librerie (la libreria come segnaposto del mondo) e conosciuto molte persone e avuto indicazioni e attenzioni che mi hanno reso un viaggiatore privilegiato. Se infatti viaggi per presentare un libro vieni accolto e curato da chi ti invita in maniera speciale e ciò rimuove, da quel viaggio, qualsiasi patina turistica nel senso negativo del termine. È come saltare un passaggio ed entrare a testa alta, senza perdere tempo, nel cuore di un luogo anche se lo conosci per la prima volta.
Quindi ora vive a Roma. E Torino, che rapporto ha oggi con la sua città?
Torino non mi appare più come la Torino di anni fa. L’ho amata molto; è una città enclave per collocazione geografica e forse per questa ragione noi torinesi ci sentiamo anche un po’ stranieri. Ci torno, certo, per ragioni famigliari, ma dopo aver visitato in lungo e in largo tutta l’Italia è avvenuto un cambio mentale rispetto a ciò che significava per me Torino. I primi sei mesi da quando avevo lasciato la città mi sentivo quasi malato, anche se avevo preparato per tempo il distacco. A quel punto, sebbene fossi già proiettato altrove, lontano da Torino, mi è particolarmente mancata la Pianura Padana e qualsiasi altra cosa che la città, e la regione, rappresentassero per me. Oggi è tutto molto scemato. Probabilmente ho messo una distanza tra me e il luogo dove sono nato.

E questo sentirsi cittadino del mondo?
Premetto che mi sono interrogato più volte per capire cosa si smuove nel profondo ogni volta che un luogo mi cattura. Spesso sono i deserti perché hanno una forza generativa per me superiore ad altre esperienze. C’è un verso di Wystan Hugh Auden dalla poesia Allunaggio che lo descrive bene: «...Una volta ho attraversato un deserto e non sono rimasto affascinato: datemi un giardino...» Nei viaggi conta molto il momento. Se mai tornassi in un luogo già visitato, sarà sempre un’altra esperienza; il viaggio è come un irripetibile tatuaggio del momento dell’individuo. Per esempio, l’Afghanistan. L’ho amato per i suoi luoghi desertici ma anche per aver provato, in quel viaggio, una sorta di nostalgia preventiva. Sapevo già che molto probabilmente non ci sarei potuto tornare. Ero andato per lavoro (come inviato del Corriere della Sera, nda), avevo a disposizione una scorta, un elicottero per spostarmi in quelle terre impervie, ma ciò non toglie che la tensione umana che mi attraversava era unica e irripetibile. Peraltro, io non sono uno spericolato, tutt’altro. Forse l’emozione dello scrittore, in quei momenti, veniva moltiplicata dall’umano coefficiente che chiamiamo paura.

Dopo l’Afghanistan, il Giappone. Avverte una attrazione per l’Oriente?
Mi capita di andare spesso in Asia con mia moglie. In Sri Lanka abbiamo fatto il viaggio di nozze, un viaggio rapido, “da turista” sebbene spesso, di quel Paese, mi tornano in mente alcune grotte con degli enormi Buddha di pietra; sempre con lei, sono andato in India, dove ero già stato ma, legando la promozione di un libro con l’occasione di conoscere luoghi. Sono stato anche in Cina. In Giappone (un Paese che ora mi sembra diventato un po’ troppo instagrammato) andai per una conferenza; in Vietnam siamo stati in occasione della traduzione del mio libro. In generale, soprattutto se non viaggio da solo, cerco di unire l’impegno di lavoro con l’opportunità di conoscere un posto per me nuovo. Poi ho fatto trekking sull’Himalaya. Pur non essendo particolarmente sportivo è stato un modo di mettermi alla prova anche se, come diceva lo scrittore David Foster Wallace, «forse non lo farei più»... Sono arrivato a cinque-mila metri di altitudine e confesso di essere stato attraversato da forti sensazioni di paura, fisica e mentale.
Non poteva mancare il richiamo degli Usa...
La prima cosa che mi sono concesso con i primi guadagni dei libri (anche perché gli Stati Uniti non sono certo alla portata di un giovane dottorando) è stato un viaggio di 15 giorni in auto scorrazzando da una parte all’altra degli States. Mi sono fatto guidare dalle letture; credo che non ci sia nulla di meglio che viaggiare in luoghi che, possono essere anche letterari, Wallace – il mio scrittore di riferimento –, ma anche Joan Didion, Joyce Carol Oates, Raymond Carver, Cormac McCarthy... Ero intriso di letteratura americana e questi scrittori che conoscevo bene hanno “mappato” la mia geografia americana. Insomma viaggi che prima erano solo mentali, aspirazioni, prendono corpo nel momento in cui li raggiungi. Poi a Seattle, per i luoghi del grunge. Ora credo di avere i riferimenti di quella nazione, ne riconosco i codici. E poi ho fatto due tour “solitari” per presentare libri. Solitari perché gli editori non ti accompagnano e questo andare in giro da soli è anche un modo per aumentare le occasioni di conoscenza. Notevole frequentare le librerie americane anche nelle periferie più remote. A quel punto sei costretto a “nuotare”, guardi in faccia quelle realtà. Devo dire che viaggiare da solo mi è piaciuto, ma ultimamente preferisco, se posso, condividere l’esperienza.
Ma la sua passione per l’America non si esaurisce con gli Stati Uniti...
No. Infatti il Sudamerica mi piace moltissimo. Conosco tutti i Paesi, Colombia, Cile, Bolivia, non particolarmente bene il Brasile ma mi sono ripromesso di tornarci. Il mio primo viaggio in Sudamerica, a 17 anni, l’ho fatto in Venezuela dove avevo un amico che mi aveva invitato. Da solo, e il primo viaggio fuori dall’Europa. Allora non avevo un buon rapporto con il sole, forse per ipersensibilità epidermica. Ma lì, vuoi per l’età, vuoi per il cambio di colori, aria, luce accecante, ho scoperto che potevo godere più serenamente della luce. Ho un ricordo bellissimo di quel viaggio anche se intriso di giovane età, di distanza... forse è lì che è esplosa la mia passione per il viaggio. La Patagonia l’ho lambita varie volte sia dalla parte dell’Argentina sia da quella del Cile. Atacama mi ha incantato (guarda caso, un altro deserto) ma comunque il Cile io ce l’ho davvero nel cuore.

Per lavoro ha girato molto anche per l’Europa. Quale area l’attrae in questo momento?
In questo momento, tornerei in Ucraina. Sono stato lì da inviato e mi ha lasciato un bel ricordo... Sì, ora c’è la guerra, ma anche un’energia forte che lascia il segno e questa stessa energia la sento sempre provenire dall’Est, che conosco poco rispetto all’Europa occidentale, però la sento ovunque questa energia, molto giovanile, in quei Paesi che chiamiamo dell’Est, la sento da un decennio e anche più. Lettonia, Lituania, ma anche Polonia, Romania. Mi piacerebbe approfondire la conoscenza di quei luoghi che sviluppano in me una grande curiosità.
Ho letto i suoi reportage dalla Groenlandia quando volò lassù a seguito delle pretese di Donald Trump. Che impressione le ha fatto?
Il paesaggio artico rimanda alla mia passione per i deserti. C’è una relazione: il vuoto. Sono stato una settimana e non ho patito il freddo. Da quando vivo a Roma, l’idea di sciare e di andare in montagna è scemata e quindi per andare in Groenlandia ho dovuto attrezzarmi da zero. È un luogo abitato da pochissime persone e deve essere stato strano per quegli abitanti vedere l’improvviso arrivo di giornalisti da mezzo mondo spinti lì da una stravagante dichiarazione di Trump. La Groenlandia non è un posto come un altro, si è distanti da tutto. E l’atteggiamento degli abitanti locali era sempre tipo “qui non arriva mai nessuno”. E devo ammettere che per me rimane un luogo inabitabile.

Dopo tutto questo viaggiare ha intenzione di rallentare?
In teoria vorrei, ma probabilmente non ce la potrei fare a comportarmi come un individuo stanziale. Anche perché confesso che il viaggiare accelera molto tutti i processi mentali utili alla scrittura. È un lavoro bello, scrivere, ma non è solo bello...
Lei ha scritto a lungo anche di un “non-viaggio” chiamato Covid senza l’overtourism.
È stata l’esperienza della stasi. Uno stop forzato che avevo accolto favorevolmente. A un certo punto della pandemia mi sono detto che non avrei più viaggiato. Forse stavo bene così. Confesso le mie paure, sono un emettitore sano di paure confessabili. Ero a Roma durante il lockdown e ho finalmente ammirato la bellezza di una città non invasa da troppi turisti, magicamente restituita a se stessa. Sebbene io abbia sempre delle remore a lamentarmi troppo dell’eccesso di turismo. C’è un aspetto della democratizzazione del turismo e del viaggio che a me pare giusto. Però andrebbe ripensato il modello. Andando avanti in questa maniera è chiaro che avremo problemi. Io avevo pensato che, una volta passata, la pandemia avrebbe influito positivamente sulla riorganizzazione dei flussi turistici. Ma direi che il Covid, rivisto a distanza, più che un viaggio mi sembra un’allucinazione. Ho scritto il libro Nel contagio in sei giorni. Avevo propria voglia, evidentemente, di tirare fuori in tempo reale quello che mi muoveva quel surreale periodo.
Dovendo scegliere una meta, preferirebbe la natura incontaminata o un’immersione nelle aree più antropizzate o problematiche del pianeta?
Se dovessi scegliere una meta per un viaggio, oggi la sceglierei attratto più dai contrasti culturali e sociali che da una natura selvaggia. Il Sudafrica, per esempio, dove le tensioni etniche sono molto forti. In fondo è questo l’interesse che prende il sopravvento per uno scrittore di viaggio.