Il terreno, innanzitutto. Poi il clima, con la giusta alternanza di sole e di umidità. E sicuramente anche l'abilità e la competenza dell'uomo. Così le Langhe si sono imposte come territorio perfetto per la coltivazione della vite e per ottenere vini di eccelsa qualità, i cui nomi sono famosi nel mondo: Dolcetto e Grignolino, Moscato e Barbera.

Il più nobile fra tutti i vitigni è però il Nebbiolo, che matura ad autunno inoltrato, quando ormai sui colli si alzano le nebbie cui deve il nome. E proprio dalle uve Nebbiolo, nelle sottovarietà Limpia, Michet e Rosé, nasce quello che è forse il vino italiano più prestigioso nel mondo: il Barolo, il vino che porta lo stesso nome del paese Bandiera arancione. Certo, dalle stesse uve nascono anche altri grandi vini, come Nebbiolo e Barbaresco, Alba e Roero. Ma nessuno uguaglia la fama del Barolo. Di colore vivace, rosso rubino che poi scurisce con il tempo, ha profumo di viola, ha tannini che invecchiano con eleganza ed è imbattibile con arrosti, selvaggina, brasato. Il vino Barolo sopporta lunghi invecchiamenti: il minimo è tre anni in botti di rovere o castagno, ma raggiunge i dieci senza problemi, anzi, continuando a migliorare organoletticamente. Vini locali da uve Nebbiolo pare fossero apprezzati già dai Romani e c'è chi dice che Giulio Cesare, di ritorno dalle Gallie, ne portasse a Roma con sé una gran quantità. Era in realtà, e così rimase fino all'Ottocento, un vino amabile, dolciastro, dall'alto tenore zuccherino.

La leggenda del vino Barolo vero e proprio, il Barolo “moderno” come oggi lo conosciamo, iniziò però nel XIX secolo con la marchesa Giulia di Barolo. La data di svolta è il 1843, anno in cui l'enologo Louis Oudart fu chiamato da Camillo Benso conte di Cavour a seguire la produzione dei vini del castello di Grinzane. La marchesa di Barolo ne approfittò per chiedere all' enologo francese come poteva migliorare il Nebbiolo da lei prodotto attorno a Barolo, un vino che era allora piuttosto dolciastro. Oudart suggerì di usare lieviti specifici e di utilizzare metodi di vinificazione abituali nella regione del Bordeaux. Il nuovo Barolo incuriosì lo stesso re Carlo Alberto che chiese alla marchesa come mai non gli avesse mai fatto assaggiare «quel suo famoso vino del quale tanto aveva sentito parlare». Pochi giorni dopo, a Torino, una fila interminabile di 325 carri con 325 botti di Barolo da circa 500 litri entrava nel Palazzo Reale: una botte per ogni giorno dell'anno, tranne il periodo di Quaresima. Così nasceva, sponsorizzato dai Savoia in tutto il Piemonte e in tutte le corti europee, la febbre del Barolo, re dei vini e vino dei re.

Oggi a fregiarsi del titolo di “Comune del Barolo” sono undici paesi: Barolo, Serralunga, Castiglion Falletto, La Morra, Novello, Monforte d'Alba, Grinzane Cavour, Diano d'Alba, Cherasco, Verduno e Roddi. Il disciplinare di produzione limita la raccolta a 80 quintali di uve per ettaro, che tradotti in bottiglie equivale a 6933 per ettaro (gli ettari vitati a Nebbiolo da Barolo sono circa 1800). Non tutto il Barolo è però uguale: grandi millesimi sono ritenuti per esempio le annate 1958, 1961, 1964, 1971, 1982,1985, 1989, 1990, 1997. Inoltre, con il tempo cru e vigneti come Cannubi e Brunate si sono imposti al vertice della categoria. E negli ultimi anni il Barolo, al di là delle differenza fra annata e annata, ha anche saputo adeguarsi ai tempi e alle esigenze di una vinificazione sempre più moderna e “scientifica”. Con il risultato di riuscire a migliorare quanto già si riteneva essere perfetto.

Testo di Roberto Copello; foto Thinkstock.

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