Da dove partire, per segnalare le tipicità di Apricale e del suo territorio, vista l'assoluta eccellenza che contraddistingue gran parte di esse? Impossibile decretare il primato dell'una sull'altra. E dunque, non fosse che per una questione di numeri, e della sua onnipresenza nella cucina locale, dai primi ai dolci, conviene iniziare con l'olio d'oliva, gloria del Ponente ligure, e di questo suo angolo estremo in particolare, tanto che Apricale fa parte dell'associazione nazionale “Città dell'olio” ed è situata lungo la Strada dell'olio, ovviamente quello derivato da olive taggiasche.

I suoi pregi derivano ovviamente dalla polpa carnosa della drupa di un'oliva che da queste parti, senza tanti falsi pudori, è ritenuta la migliore del mondo: la Taggiasca. Un'oliva e un olio che hanno consentito lo sviluppo e anche un certo benessere della zona sin dal XVII secolo, quando via via si estirparono tanti vigneti e agrumeti, sostituendoli con gli oliveti. A essere sacrificati furono anche gli ottimi e famosi fichi locali, che erano già citati nei famosi statuti comunali del XIII secolo (prevedevano pene severe a chi tagliava un ramo di fico senza autorizzazione) e i cui alberi ancora nel XIX secolo pare superassero per numero le piante di olivo.

Ne valeva la pena, però, perché un olio di tale qualità sopraffina era sempre più richiesto ovunque, persino all'estero, e poteva dunque garantire guadagni ben maggiori. Gli anziani ancora ricordano quando, fino a qualche decennio fa, le olive appena raccolte erano trasportate, spesso a dorso d'asino, fino al frantoio (in dialetto “gumbo”), la cui macina poteva operare a “sangue” se azionata da un mulo o da un bue legato ad una stanga, oppure ad “acqua” se a fare girare la sua ruota era un ruscello o un torrente. La frantumazione delle olive era comunque eseguita con la pila chiamata “Colombina”, una pietra che non scalda (all'epoca non c'era proprio bisogno di sottolineare che le olive venivano frante “a freddo”, come si legge oggi sulle etichette dei migliori olii).

Dopo l'olio, conviene saltare subito al dessert, per parlare delle pansarole con lo zabaione, frittelle dolci che sono davvero esclusive di Apricale, e la cui tradizione risale a tempi immemorabili. Come prova anche il fatto che oltre un secolo fa già il viaggiatore inglese William Scott, nel suo “The Riviera painted and described” pubblicato a Londra nel 1907, citava le pansarole di Apricale e spiegava come si preparano. Ricetta assolutamente relativa (qui una proposta), dato che ogni donna di Apricale ha i suoi segreti per preparare le pansarole migliori. In ogni caso, basti dire che si tratta di frittelle dolci impastate con farina, zucchero, vaniglia, burro, scorza di limone grattugiato e poi, in genere, tagliate a rombi. Vanno poi fritte nell'olio extravergine d'oliva, quindi spolverate di zucchero e anice, infine obbligatoriamente intinte nello zabaione caldo, a base di uova, vino bianco, zucchero e marsala, fatto cuocere a bagno maria per circa 20-25 minuti. Alle pansarole con lo zabaione, che si gustano sia bollenti sia fredde, è dedicata una sagra la prima domenica di settembre. Le pansarole però non sono in verità l'unico dolce locale: esistono anche le cubaite, un dolce di origine araba costituito da due cialde (“Negie” in dialetto) fra le quali è racchiuso un croccante di nocciole e miele.

Procedendo a ritroso, e tornando ai primi piatti, quello più tipico di Apricale sono i barbagiuai, grossi ravioli con un ripieno di zucca, formaggio, tuorlo d'uovo, maggiorana, e magari anche un cucchiaino di “bruzzo”, una ricotta di capra fermentata dal sapore molto forte. Il curioso nome barbagiuai pare derivi da “barba di zio Giovanni”, forse per via dei rossi filamenti causati dall'amalgamarsi di zucca e formaggio. Esiste però anche una versione di barbagiuai più leggera, con un ripieno di erbe di campo che, a seconda della stagione, può comprendere bietole, borragine, scarola, lattughino, maggiorana, “arunzane”, “scarpirui”, ortica, raponzolo, valeriana rossa, cicoria selvatica, pimpinella, dente di leone o “piscialetto”, rosolaccio, piantaggine, lingua di cane.

Le verdure del resto sono una caratteristica della cucina ligure, le cui ricette da sempre sono più orientate dall'orto e dal pollaio che non dal mare. Ad Apricale lo prova anche la “torta verde”, una torta casalinga che un tempo veniva fatta soprattutto al tempo della raccolta di olive per essere portate come “pranzo al sacco” da chi andava nel campo ad abbacchiare. Viene preparata impastando e cuocendo al forno un impasto di farina, acqua e sale che contiene un ripieno fatto con uova, parmigiano e verdure locali, per esempio zucca e bietole.

E la carne? Come in tutta la regione, trionfa la passione ligure per il coniglio. Ad Apricale si prepara il cosiddetto “cunigliu brüscau”, il cui nome deriva dall'antica usanza contadina di posare il coniglio appena ammazzato su un treppiede e accendere al di sotto un fuoco per fargli bruciare (“bruscà”) tutto il pelo. La ricetta impone una lunga preparazione del coniglio, prima di metterlo a rosolare in casseruola con olio d'oliva, tanti sapori e le immancabili olive.

Va infine citato il fatto che il territorio di Apricale ricade fra i comuni compresi nel disciplinare di produzione del Rossese di Dolceacqua, il più famoso vino rosso ligure, che si presta splendidamente a essere abbinato con le specialità della cucina locale, dalla carne alle verdure ai formaggi, ma persino con il pesce e con i carciofi (una delle verdure che meno tollerano l'abbinamento con i vini).

Testo di Roberto Copello; foto Thinkstock (olive taggiasche), Wikipedia Commons (barbagiuai), dolceacqua.it (vigna)

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