Dice un proverbio bulgaro: «Chi si scotta con l'acqua calda soffia anche sullo yogurt». Così quando ti parlano di tartufi pensi subito che sì, certo, si fa presto a dir tartufi. Tra formaggi al sapor di tartufo, salse al tartufo, olio al tartufo, grattatine di tartufo di qui e di là, la fregatura è dietro l’angolo. Perché a parole di tartufo ce n’è in giro un mare, così tanto che l’ottone viene passato per oro e alla fine non si sa bene neanche che sapore abbia, il tartufo, quello vero. Per scoprilo bisogna andare a Moncalvo, in Monferrato, da un anno borgo Bandiera Arancione del Touring Club Italiano. Un paese di collina un tempo dominato da un immenso castello e oggi domina un paesaggio color pastello. Almeno in autunno, quando una nebbiolina vaporosa fa capolino al mattino come se l’avesse richiesta un pittore in cerca di atmosfere. Un paesaggio fatto di vallette piantate a vigna, distese di giovani noccioli, fitti boschetti residui, campi ordinati e ben arati e campi con ancora le stoppie del mais. E poi rogge alberate, grandi casolari sparsi, strade filanti che dopo ogni curva finiscono per essere panoramiche e una ferrovia da qualche anno senza treni. Quasi tremila abitanti in un contesto urbano che sembra più grande, Moncalvo da un anno è Bandiera Arancione. Ma soprattutto Moncalvo è, con Alba – va detto –, la patria del tartufo. E l’autunno è la sua stagione.

«Lo senti questo? Odora». Aldo Guarnero è chino sul prato, in un tripudio di eccitazione la sua cagna Kyra ha appena scavato un tartufo bianco. Non è grande, ma non è neanche piccolo. Vorrebbe azzannarlo ma Aldo la trattiene, pulisce il tartufo dalla terra e con la zappetta sistema il terreno smosso come dovrebbe fare ogni trifolaio. «Ricorda questo profumo, piantatelo in testa, questo è l’odore del tartufo bianco maturo appena tolto dalla terra. Quando ti entra nel naso non te lo togli più». Inebriante, forte e pungente. Sa di bosco umido. Ma forse quello è solo l’odore della terra e del bosco, perché è mattino, è ottobre ed è umido. La cosa strana, almeno per chi non sa nulla di nulla della ricerca dei tartufi, è che è stato trovato in un campo a qualche centinaio di metri dalla stazione, una radura di terreno vicino alla siepe di una casa ombreggiata da sei grandi tigli. Se alzi la testa vedi il centro di Moncalvo, il profilo del paese che se ne sta lassù sulla collina come in un romanzo di Cesare Pavese. Non sei nel fitto di un bosco. «E già, vero? Non ha molto di romantico» commenta Aldo. Che sale in macchina ti porta in un altro prato fangoso, giusto qualche quercia al limitare di un campo accanto a un canale. E poi più in alto, in un noccioleto sulla collina più alta del paese, poco più di trecento metri da cui nelle giornate di bel tempo vedi tutta la corona della Alpi, dal Monviso al monte Rosa. Mentre in quelle così e così intuisci le colline del Monferrato tra le brume e ti indicano che di là, alle spalle, non lontano inizia la pianura che tutta livella. Aldo a tartufi ha iniziato ad andar da ragazzino, con la Vespa su cui aveva montato un collare per trasportare il cane tra le gambe. «Per me è una passione, per tre mesi in autunno faccio quello. Ma non è mai stata una cosa romantica la ricerca dei tartufi. Qui c’è un detto, te lo traduco: il contadino ricco andava a caccia, quello povero andava a tartufi. E ci andavano di notte, perché di giorno si lavorava». Una passione che se va bene diventa anche una bella integrazione del reddito, perché il tartufo di queste parti è sempre stato servito sulle tavole di principi e re.

Con orgoglio Pietro Broda mostra delle piccole scatolette di latta di inizio Novecento. «Erano quelle in cui venivano spediti i tartufi per arrivare nei ristoranti di tutta Europa, da Londra a Parigi. Li immergevano in una soluzione liquida e li avvolgevano in un panno, in modo da mantenere la freschezza» racconta in una sala della sua bottega che si affaccia sulla piazza principale di Moncalvo, piazza Garibaldi. Il negozio è una drogheria (piazza Garibaldi 10, tel. 0141.917143) che poco deve esser cambiata da quando ha aperto, nel 1923. «Noi siamo qui da sessant’anni ed è rimasta come era» racconta in una stanzetta piena di oggetti antichi. Strumenti di uso quotidiano, che si fanno spazio tra bottiglie di vino e liquori, Porto d’annata, grappe, Barolo e Barbaresco da competizione. Il negozio di Broda è uno dei pochi, forse l’unico del paese, dove il tartufo lo si trova tutto l’anno. «A metà ottobre siamo ancora sui 200 euro l’etto, mano a mano che si avvicinano le fiere, la nostra e quella di Alba, il prezzo cresce». E nel dirlo apre la sua scatola del tesoro, una cassetta di legno di quelle con cui si vendono le bottiglie pregiata. Dentro una manciata di preziosi tuberi il cui profumo inonda tutta la stanza. «In questa stagione ce li portano a tutte le ore. I cercatori vengono con il loro pacchettino e si compra. Alle volte la mattina presto telefona qualcuno che non sta nella pelle perché ne ha trovato uno grosso, ma grandi come quelli di una volta non ce ne sono più». Con fare delicato prende il più grosso, lo avvicina lentamente al naso e sentenzia: «Saranno due etti». Lo posa sulla bilancia di precisione: due etti e quattro grammi. Quando si dice l’esperienza. «Non ne mangio tanti, ma quando ho voglia prendo uno di questi a forma di piccolo ovulo e me lo cucino». Come? «Sull’ovetto. Sull’ovetto è il massimo».

Già, tutta la poesia del tartufo finisce in cucina. Anzi, in tavola. «Perché il tartufo, quello buono, quello bianco di queste parti che è il migliore del mondo non si manipola, si grattugia e basta» spiega Domenico Andrin del ristorante Corona reale. Anche lui concorda con Broda. «La morte del tartufo sono le uova, certo. Poi viene la pasta», dice. Sua moglie Sonia che è lo chef del Corona Reale i tajarin – che già di loro contengono tantissime uova nell’impasto –, li prepara con un rosso d’uovo al centro. «Così mettiamo meno burro e alla fine viene come fosse una carbonara», racconta. Solo che invece del pecorino si grattugia il tartufo bianco.
Affacciato sulla piazza grande dove un tempo c’era il castello, il ristorante sul retro ha una saletta piccina dove ci sta giusto un tavolo, ma si gode di una maestosa vista sulle colline del Monferrato, non per nulla un tempo al suo posto c’era un albergo. Ma a Moncalvo per assaggiare la cucina del Monferrato c’è davvero solo l’imbarazzo della scelta, dove cadi cadi bene. E poi i tartufi tutti sanno come trattarli. «Ma è bene sapere che il tartufo bianco si può servire solo tra il 31 settembre il 31 gennaio» specifica Andrin.

«Negli anni siamo diventati una destinazione per chi ama mangiar bene e bere altrettanto bene. L’enogastronomia è indubbiamente la molla che porta tanti a Moncalvo, anche se abbiamo un bel museo civico (Via Caccia, 5, tel. 351.9493084) con tante chicche del Novecento, da Chagall ai maestri italiani da Guttuso a Baj, a Sironi» spiega Barbara Marzano, agronomo e assessore a Moncalvo. Per tutti l’attrattiva sono i prodotti locali: ovviamente i tartufi quando è stagione, e poi il vino: Grignolino, Freisa e Barbera Superiore su tutti (da comprare tra gli altri alla Bottega del Vino in piazza Antico Castello 1, tel. 389.5294018). E le vigne in effetti sono ovunque. Per esempio quelle di Daniele Cesca sono di fronte al paese, appena sotto l’ex convento dei Cappuccini. Un appezzamento oggettivamente panoramico che fino a tre anni fa era un bosco. «Adesso è un vigneto piantato a Slarina, un vitigno autoctono che ancora è un esperimento, ma si adatta bene a questa parte della collina» racconta Daniele. Se tartufo e vino sono ai massimi livelli, anche la carne non scherza.  Questa è la terra del bue grasso, un bovino adulto di razza piemontese dal manto bianco e l’imponenza statuaria.
«Siamo molto orgogliosi della Fiera del bue grasso che facciamo a dicembre, con tutti gli animali in fila sotto i porticati del castello, come una volta» racconta Marzano. Anche se la Fiera più conosciuta è la Fiera nazionale del Tartufo che ormai si tiene da 66 anni a fine ottobre (nel 2021 nelle giornate del 24 e 31 ottobre). Una mostra mercato il cui cuore, da sempre, è la competizione tra i tartufai. In palio il “Tartufo d’oro” e lo “Zappino d’argento” ai migliori esemplari unici, che non sono per forza i più grandi, ma quelli più profumati e perfetti. In quell’occasione tutto il paese si trasforma in una arena del viver (e del mangiar) bene. Consigliata a tutti quelli che una volta nella vita hanno preso una fregatura con i tartufi e vogliono ricredersi.

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Testo: Tino Mantarro - Foto: Giacomo Fè