Il 22 ottobre 2022 si è tenuto l'evento conclusivo del Premio Chatwin 2022, concorso internazionale di narrativa e fotografia di viaggio organizzato dall'Associazione Culturale Chatwin e patrocinato dal Touring Club Italiano. A questo link la presentazione della serata e tutti i vincitori. Di seguito i racconti vincitori nella sezione Narrativa.

DI VENTO E DI SABBIA (MAURITANIA)
di Giulia Tabacco
1° Premio Narrativa

"Per le veloci, ma precise, descrizioni dell’ambiente come inquadrature di un film che tessono il racconto dei silenziosi riti legati alla sopravvivenza di una natura apparentemente vuota e ostile. Per la poetica rappresentazione del ruolo dei due elementi, il vento e la sabbia, che disegnano, ritagliano, definiscono e riempiono la scena del deserto, resi con originale ed estroso approccio narrativo capace di ricreare immagini vive con pochi efficaci tratti di penna".

Milanese di nascita, Giulia Tabacco collabora con case editrici e realtà culturali e sociali. All’amore per i libri unisce quello per i viaggi; nel suo andare alterna cammini ed esperienze di lavoro, spesso volontario. Ha realizzato reportage indipendenti in Medio Oriente, India, Senegal e Australia, centrati in prevalenza su aspetti sociali, culturali e artistici. Attualmente gestisce un rifugio negli Appennini liguri.

I mauritani parlano poco e sono vestiti di vento.
Bianchi, azzurri, blu, gli uomini; lilla, verdi, a fiori, a rombi, le donne. Quando camminano le stoffe si alzano, si arricciano, si gonfiano. I tessuti chiudono le teste: quelle degli uomini con un turbante, che contorna il mento come una ghirlanda e sale fino al naso, quelle delle donne con un velo che passa dietro le spalle, va giù per la schiena poi torna fino ai capelli.
Per forza si coprono, è una questione di numeri.
75.
75% del loro Paese è sabbia. Ci sono più grani di sabbia che di couscous, e più dei datteri freschi in agosto, più degli arbusti aguzzi che sgranocchiano le capre, più delle parole che compongono le preghiere. In un Paese di sabbia l’unica è coprirsi. Per non dire del sole e del vento. Il sole è di un bianco che fa male agli occhi e l’aria smeriglia la pelle: è per l’aria che hanno inventato questi abitoni che coprono facendo al contempo volare i contorni. Per lasciarla passare. Il vento trasforma le persone in navi, il deserto pare un mare ocra solcato da barche colorate: di quelle barche i corpi sono gli alberi, i piedi le ancore, gli abiti le vele.
I mauritani parlano poco perché sabbia e vento si infiltrano nel naso e nei pensieri. Parlano poco perché il Sahara è grande.

Salima di mestiere fa il nomade. Ha tre cammelli e due dozzine di capre, una tenda per dormire e un’altra, larga e aperta davanti, per riposare. Quando arriva l’ora della preghiera si toglie le scarpe e si passa le mani sui piedi nudi, poi si accarezza i palmi l’uno con l’altro: non c’è acqua per le abluzioni, allora le mima. Cuoce il pane sotto la cenere, prepara il tè e lo versa tre volte, ha un’accetta sotto la sella del cammello e con quella taglia la legna per il fuoco.
Con lui nel deserto trovo alberelli contornati da pallini gialli profumati che a toccarli si sfaldano tra le dita. Li guardo, li annuso, li accarezzo, li riconosco. È mimosa. Mimosa gialla nel Sahara, con l’aggiunta delle spine: ma qui è normale, qui ogni arbusto al posto delle foglie ha aculei bianchi e affilati. Intendiamoci, è probabile che abbia un altro nome, la pianta che ci dà un’ipotesi di riparo quando il sole è troppo intenso: per me, però, è lei, il simbolo dell’otto marzo, della festa delle donne. Una ricorrenza che quaggiù nessuno ha mai sentito nominare: ma io, che la festeggio da tutta la vita, mi emoziono, perché siamo all’inizio di marzo e questo vuol dire che i fiori gialli sbocciano nello stesso tempo in Liguria e in Mauritania, anche se tra qui e Savona ci sono 5.200 chilometri.

“Nutrimento per gli animali ce n’è?”, domando a Salima una sera al tramonto. “Così”, risponde guardando gli arbusti rinsecchiti.
L’ho detto che i mauritani parlano poco: preferiscono starsene dritti davanti alla terra baluginante, sono dei gran guardiani dell’orizzonte. Roba da far ammattire noi che alla sabbia che screpola le rughe non siamo abituati: cosa vuoi dire, Salima? Così così, così abbastanza, così neanche un po’? Ma lui sta zitto, immobile di fronte al sole, che finalmente non è più un neon infinito. Finché a un tratto dice: “Vedi laggiù, proprio davanti ai tuoi occhi. Là vanno gli animali”.
Fa una pausa.
“C’è una pozza d’acqua. È verde, fresca, buona. C’è sempre, non si estingue mai.” Allora capisco che nella lingua del Paese della sabbia che scivola tra le dita, delle genti che compiono gesti essenziali e precisi, mai uno di troppo, mai uno di meno, mi ha risposto. Di più: mi ha detto una cosa importante. Mi ha mostrato dove si trova la vita.

AL MONDO
di Alessandro Pierfederici
2° Premio Narrativa

Nato a Genova, cresciuto a un passo dalla battigia, Alessandro Pierfederici è da sempre appassionato di libri e scrittura, tanto che "per poter essere padrone della mia immaginazione" ha rinunciato a una carriera da ingegnere per diventare un traduttore, un mestiere che gli ha permesso "di vivere in tanti posti diversi, così tanti da essere diventato allergico ai traslochi e ai bagagli". Oggi si è stabilito nel Chianti e ogni giorno sente la mancanza del mare.

Kisa si chiamava. “Corto”, in turco. Ma, del marinaio di carta, aveva ben poco. Basso e tarchiato, era un uomo fatto di vino e sigarette economiche che nascondeva sotto il cappello alla Gavroche di lana sbiadita. Come nei giorni precedenti, eravamo gli unici clienti seduti ai tavolini del piccolo ristorante a ridosso del porticciolo di pescatori. Oltre la spiaggia di ciottoli che si stendeva a pochi passi da noi, il meltemi si divertiva a stuzzicare le onde che rispondevano alle provocazioni con nervosi sbuffi di spuma bianca. 
Avevo conosciuto Kisa proprio qui, per caso, e pranzare allo stesso tavolo era diventata presto un’abitudine. Imparando a intrecciare i fili spezzati del mio greco incerto e quelli del suo inglese malfermo, avevo capito che era stato un pescatore in gioventù e molte altre cose dopo. Ora si lamentava di essere solo un vecchio che guardava il cielo con occhi pieni di ricordi. 
Portai alle labbra il bicchierino colmo di caffè. L’aroma di bruciato mi riempì le narici, scacciando per un istante l’odore di salsedine. 
“Sai, una volta ho viaggiato. Sono andato lontano,” disse Kisa senza preavviso. 
Sorpreso, feci la più banale delle domande: “dove?” 
“Là,” rispose, puntando un dito tozzo verso la striscia blu cobalto dell’orizzonte. Istintivamente guardai il punto che stava indicando, come se il mare stesse per svelare uno dei suoi segreti. “Sono andato a cercare il mondo, che qui sembrava non arrivare mai.” 
“E l’hai trovato?” 
Kisa accese una delle sue sigarette gualcite e, tenendola tra l’indice e il medio, aspirò un po’ di fumo. “Non saprei. Sono tornato subito indietro.” 
“Perché?” 
“Ero giovane, ma ho capito che quello che stavo cercando era troppo complicato per uno come me,” rispose scuotendo la testa. 
Guardai il profilo di Kisa e provai affetto per quel volto coriaceo su cui il tempo aveva lasciato segni profondi. E provai vergogna. Io venivo da oltre quell’orizzonte, ero figlio di quella complessità che lo aveva spaventato e di cui probabilmente ero corresponsabile. Pensai all’umanità sempre più chiusa in sé stessa, ossessionata da norme, notiziari ed etichette che diventavano più veri dell’esperienza e alla costante sensazione che non ci fosse più bisogno di andare da nessuna parte. Allora compresi. Credevo di essere venuto in Grecia per ripercorrere le orme di Henry Miller, ora mi accorgevo di essere qui perché avevo paura che non ci fosse davvero più nulla da scoprire, che il mondo fosse oramai ovunque lo stesso. 
Kisa emise un piccolo grugnito, quindi gettò la sigaretta a terra e la schiacciò con un piede. “Che pensieri sciocchi,” disse sorridendo, “non fanno bene al cuore.” 
Sorrisi di rimando e annuii. 
Il vento ora ci scompigliava i capelli e faceva frusciare le tovaglie di carta. Le poche barche colorate dei pescatori scricchiolavano placide al riparo dalle crescenti bizze del Mediterraneo. Kisa fece un cenno alla cameriera che stava apparecchiando un tavolo poco distante. La ragazza trotterellò all’interno del basso edificio di cemento del ristorante e tornò con una bottiglia di ouzo. 
“Ci vuole un brindisi,” disse Kisa, mentre versava il liquido lattiginoso. “Al mondo,” aggiunse con una risata sollevando il bicchiere, “sperando che si dimentichi di questo posto e di questo vecchio.”

UN VIAGGIO
di Riccardo Borghetti 
3° Premio Narrativa ex-aequo

Riccardo Borghetti, spezzino, è compositore e autore di oltre 400 canzoni per cantanti italiani e stranieri; ha firmato colonne sonore, sigle per emittenti televisive, jingle pubblicitari per Rai e Mediaset. È stato autore televisivo e radiofonico. Insegna chitarra e svolge attività di musicoterapia, oltre a essere docente in progetti musicali.

Non proprio in Patagonia. Non con il miraggio di quell'uncino di terra ispanica e selvaggia, ma andare. Muoversi ed andare per potersi incontrare di nuovo. Ho impiegato molto tempo per convincere il viaggiatore sconfitto che era in me a riprendere il cammino e non sono sicuro di esserci riuscito. Quando lei se ne è andata non riuscivo a capire. Pensavo si fosse abituata a restare e ad amarmi ma evidentemente non era così. Era rimasta scalpitando. Restare ad amarmi non le piaceva.

Non le somigliava, le costava troppo. E allora via, in movimento, mentre io, stanziale, a farmi domande, conoscendo già le risposte. La routine rassicura, ci avvolge nelle sue tiepide spire e ci coccola in lunghi tempi che si ripetono e che finiamo per amare. Avevo creato il mio punto di equilibrio: l'appartamento in centro città proprio sopra all'elegante bar del quartiere, le mie colazioni alla solita tarda ora mattutina, gli incontri con i soliti avventori con scambi di opinioni su tutto, sport, politica, sprazzi di cultura e sguardi malandrini a donne che spesso ricambiavano. Oltre alla mia pigrizia anche l'ego riceveva carezze mentre lei, inconsapevole o, forse no, progettava la fuga per allontanarsi da me, dalla mia polvere, dal mio stagno.

I nostri dialoghi latitavano. Lanciavo, sempre più raramente brandelli di argomenti che non appassionavano né me né lei. Ripensandoci, credo che nel mio intimo paventassi la sua fuga, la mia solitudine, l'abbandono e già allora ne fossi terrorizzato. Un uomo statico e spaventato. Spento. Nel crepuscolo del nostro amore moribondo tra un telegiornale e i nostri commenti sfilacciati lei prendeva la chitarra che le avevo regalato secoli fa e intonava una canzone fissandomi con i suoi occhi malinconici. Li rivedo adesso e mi correggo, erano nostalgici. Nostalgia di chissà cosa, di chissà che. Forse la risposta stava in quella sua canzone che ripeteva ossessivamente. Bella melodia ma mi sfuggivano le parole. Un pacato messaggio disperato di una naufraga che lancia S.O.S in un mare tempestoso. Non so dove sia ma so dove raggiungerla. Canticchio la canzone e seguo le parole come fossero la mappa per trovarla:

“Che viaggio che sarà, sarà una bella gita,
giornate di incoscienza e di velocità inaudita,
le notti tiepidissime di brezze marinare
avremo male ai muscoli per tutto quell'andare.
Andare e ritrovarci perché siamo perduti,
che ci attacchiamo al tempo andato sempre più sudati,

l'amore ha il cuore nomade e tende agli orizzonti,
l'amore è un commerciante serio e non concede sconti.
Ne abbiam vissute storie per poi sederci qua
ad aspettar qualcosa che non viene e non verrà,
abbiam dimenticato le regole del gioco,
abbiam mangiato tutto e seminato molto poco.
Con i polsini logori e i vestiti demodé
io non ti sto piacendo più e tu non piaci a me,
ricominciamo il viaggio, lasciamo fare al mare,
troviamoci ansimanti e stanchi dentro nuove sere.
Il tempo di dormirci su e riprendiamo il viaggio,
raccogli le tue cose buone, ritrova il tuo coraggio,
scintille, fuoco e incendio non scoppiano per caso
ci vuole volontà perché di solito è doloso.
È molto che mi manchi, chissà dove sarai,
tra gesti prevedibili, io sono dove sai
in posti lontanissimi e non c'è niente di peggio
che rimanere immobili e non mettersi più in viaggio.
L'amore ha il cuore nomade e tende agli orizzonti,
continuerà a sorprenderci se noi saremo pronti”.
Eccola, la vedo.
Sorride.
Mi aspettava.

LA STANZA
di Massimo Spinosa 
3° Premio Narrativa ex-aequo

Nato a Napoli, da anni Massimo Spinosa vive a Milano. Laureato in Lettere classiche, ama ascoltare. Giornalista, lavora presso una cooperativa editoriale che gestisce diversi siti di informazione. Gli piace leggere e seguire il calcio.
 

Vento e pioggia. A me la montagna piace così. “Sei pazza”, dicono gli amici. Io e la mia famiglia vivevamo a valle e dalla finestra vedevo i monti proteggerci da lontano, una muraglia cinese creata dalla natura. Mio padre per lavoro non stava quasi mai a casa e non mi portava in cima. Non ho mai saputo perché. Peccato. “Domani andremo lì in alto”, annunciò a sorpresa un giorno, indicando con il dito l'orizzonte. Ero una ragazzina e lo avevo sempre desiderato. Quella notte non dormii. Era buio quando bussò alla porta per svegliarmi. Ero pronta, lo zaino colorato nell'angolo della stanza aspettava soltanto di essere preso. Un cenno e ci incamminammo. Mio padre andava veloce e non rallentava anche se ero in chiara difficoltà. Come un cucciolo con la madre, non lo perdevo di vista. Per orgoglio, non chiesi mai di andare piano o fermarci. Avevo il sospetto che lo facesse apposta. Una volta lo vidi sorridere di nascosto, ma non ne sono sicura. Avvolta nel buio, la mia unica preoccupazione era non cadere. Il sentiero diventava sempre più ripido. L'escursione non era come l'avevo immaginata. Mi mancava il fiato e per la fatica sognavo di sdraiarmi sull'erba e stare ferma come un oggetto abbandonato osservando il cielo. Mentre ero impegnata a dosare i passi e metterli nel posto giusto per non scivolare, fummo inondati dall'alba. Lo schiaffo di luce ci sorprese e in un attimo passammo dalla notte al giorno. Mio padre si fermò. Il sole illuminava le rocce e gli alberi, regalando l'illusione di scaldarci un poco. Anche se non esperta, sapevo che i raggi erano ancora freddi, ovviamente, ma questo mi bastava. Guardai la valle lontana e non pensavo di aver camminato tanto: tetti e finestre brillavano.
Non lontano da noi alcune foglie si mossero. Mio padre fece segno di stare fermi. La nostra era zona di lupi e di orsi. “Improbabile in questo periodo”, dissi a me stessa per rassicurarmi, ricordandomi di una discussione, una volta, in famiglia. Il cuore batteva a mille. Guardammo quel cespuglio: uscirono sei piccoli cinghiali con le caratteristiche striature orizzontali. Buffi e teneri, si aggiravano nel prato come se non ci fossimo. La natura ignorava noi umani. Tirai un sospiro di sollievo. “Presto, andiamo via. Nei dintorni ci sarà la madre, meglio per noi non incontrarla”, ordinò mio padre. Ci allontanammo e, ogni tanto, mi voltavo per vedere i cuccioli. La cima non era lontana ma iniziò leggermente a piovere e fummo costretti a tornare indietro. “Peccato, mi spiace. Non proseguiamo. Sarai delusa, ma non possiamo rischiare. Si torna a casa, piccola”. Ero contenta di camminare sotto la pioggia ma non glielo dissi. Dopo l'incontro con i cinghiali, scambiammo al massimo tre, quattro parole. Credo che mio padre volesse farmi capire che in montagna si va in silenzio e che, nel silenzio, si apprezzano di più persone e cose che ci circondano. Una regola valida in ogni circostanza. Senza sprecare parole, com'era nel suo stile, quell'escursione fu il suo insegnamento di vita.
“Ciao cara, pronta per i massaggi?”. È una delle due infermiere che si prendono cura del mio corpo. È di famiglia, ormai. Il venerdì tocca a lei: sempre gentile, non manca mai di sorridermi. Mi chiamo Elisa, 28 anni, tetraplegica da una vita. Le montagne, il vento, il cielo sono nella mia stanza. Crocifissa nel letto, posso alzare gli occhi e guardare il soffitto: l'ho fatto dipingere blu cobalto per immaginare e viaggiare. L'incidente mi ha cambiato fuori, trasformandomi in un vecchio soprammobile ma senza intaccare l'animo. Se potessi muovermi, sognerei un'escursione con mio padre.