Proponiamo l'editoriale di Mario Tozzi, geologo, scrittore, divulgatore scientifico nonché consigliere Touring, sulla questione delle concessioni balneari in Italia. L'editoriale è pubblicato sul numero di marzo 2024 di Touring, il magazine del Touring Club Italiano.

Il tavolo tecnico convocato qualche tempo fa dal governo italiano per dirimere l’annosa questione delle concessioni balneari è arrivato a una conclusione sorprendente e per certi versi rivoluzionaria della geografia della penisola. Se per caso avete imparato a scuola o letto sulla Treccani che l’Italia conta circa 8mila chilometri di coste o avete studiato qualche rapporto ambientale di Ispra, in cui ne vengono indicate poco meno, dovete rivedere i vostri ricordi e studi: la penisola italiana arriva nientemeno che a 11.173 km di coste, un record mai toccato prima, almeno dall’ultima glaciazione di Wurm, quando si passeggiava allegramente fra Sicilia e Calabria e l’Adriatico settentrionale, come mare, non esisteva nemmeno.

Una sovrastima che rivoluziona la geografia del Mediterraneo, portando a scenari inimmaginabili. Una sovrastima che, soprattutto, consente di affermare che la risorsa balneare in Italia non è affatto scarsa, come sostiene chiunque abbia la possibilità di farsi un giro lungo le coste, ma, anzi, abbondante, ammontando la somma delle spiagge a quasi il 70% del totale. Di conseguenza non è applicabile la direttiva europea che obbliga a mettere a bando le concessioni demaniali in caso di risorsa scarsa per garantire la concorrenza. Quindi l’Ue dovrebbe ritirare le procedure di infrazione previste per il nostro Paese.

Nel tentativo di individuare quale istituto di ricerca, università, osservatorio geofisico, laboratorio marino o oceanografico sia stato responsabile di questa clamorosa scoperta, veniamo a sapere che al tavolo tecnico non avevano voce in capitolo, mentre è stata molto ascoltata quella dei rappresentanti degli operatori balneari, portatori di un leggerissimo interesse a riguardo. Come si può capire, nel conto ci è finito di tutto e di più: falesie a picco sul mare, coste rocciose inaccessibili, foci dei fiumi, tratti non balneabili per inquinamento, litorali urbanizzati e cittadini, zone industriali, aree protette non sfruttabili.

Se si fosse proceduto con serietà si sarebbe arrivati facilmente a capire che la risorsa effettivamente sfruttabile deve riguardare praticamente solo le coste basse e sabbiose e che queste sono già ampiamente occupate per oltre il 70%, con punte vicine al 90% in varie province liguri o marchigiane. La risorsa spiaggia è scarsa e dunque vanno applicate le direttive europee.

Non solo: in nessun caso le concessioni dovrebbero superare il 50% e Comune per Comune, non in un astratto contesto nazionale o regionale. E i Comuni o le Regioni dovrebbero gestire almeno una parte delle spiagge al di fuori delle logiche di mercato, attrezzandole e non snaturandole. Nessuno dovrebbe poter costruire in cemento e mattoni lungo gli arenili e i manufatti esistenti andrebbero abbattuti prima di subito. E i canoni non dovrebbero essere ridicoli, visto che a fronte dei circa trenta miliardi (dichiarati) di fatturato dai circa 12mila gestori, lo Stato incassa circa cento milioni di euro.

Insomma, dovremmo assomigliare di più a Spagna, Fran- cia, Portogallo e Grecia e non a una repubblica sudamericana ostaggio delle corporazioni in cui ogni appropriazione è debita. Ma basta allungare le coste e il gioco è fatto. Speriamo che l’Europa non se la beva.