Veri e propri patriarchi verdi. Nati ai tempi del Rinascimento: vengono i brividi, a pensare che erano già giovani virgulti quando Leonardo da Vinci veniva alla luce, nel 1452. Sono alcuni vecchissimi faggi “scoperti" sui monti del Pollino, a cavallo tra Basilicata e Calabria, in una faggeta vetusta in località Pollinello, all’interno del parco nazionale. Alberi che sono senz’altro i faggi più antichi d’Europa, ma probabilmente anche le latifoglie decidue (ovvero gli alberi che perdono le foglie) di clima temperato più antiche del mondo. Un record assoluto.

A trovarle il team di ricercatori guidato da Gianluca Piovesan, dell’Università della Tuscia, che da anni studia questi alberi e che è stato promotore dell’inclusione di alcune faggete vetuste italiane tra i Patrimoni dell’Umanità Unesco (riconoscimento giunto nel 2017; si veda il nostro articolo dedicato). “In questo studio, pubblicato su Ecology, abbiamo utilizzato il metodo dendrocronologico, ossia basato sulla misurazione degli anelli di accrescimento, per ricostruire le storie di crescita degli alberi” racconta Piovesan. “E abbiamo scoperto che due degli alberi datati sono di oltre 620 anni”. Naturalmente per valutare l’età delle piante non le si abbatte, ma si prelevano delle piccole “carote” nei tronchi, senza detrimento per gli alberi.


Michele, il faggio di 622 anni nel parco nazionale del Pollino - foto G. Piovesan

ALBERI DI MILLE ANNI?
I due alberi sono stati battezzati Michele e Norman in memoria del botanico Michele Tenore e del viaggiatore e scrittore Norman Douglas che, rispettivamente, nell’Ottocento e nei primi del Novecento hanno descritto le straordinarie foreste del Pollino rimarcando quanto gli ecosistemi fossero ancora ben conservati. “La faggeta del Pollinello è stata solo marginalmente toccata dalle forti utilizzazioni forestali del secolo scorso” spiega Piovesan "per cui, ancora oggi, si rinvengono tratti dove gli alberi nascono, crescono e muoiono seguendo un ciclo naturale”. Solitamente, infatti, tutte le nostre foreste prima o poi venivano abbattute per farne legname; sono davvero poche quelle che nei secoli non hanno subito mutamenti. Tra l'altro, alcuni alberi potrebbero essere ancora più vecchi: la carie, ossia il marciume del legno, attacca spesso i tronchi del faggio rendendo difficile la datazione. Alcuni alberi con il tronco cariato potrebbero dunque avere oltre 800 anni, fino a sfiorare il millennio. "La ricerca in corso con metodi di datazione integrati, tra dendrocronologia e radiocarbonio grazie alla collaborazione con il Cedad di Lecce, ha l’obiettivo di verificare scientificamente questa proiezione, basata per ora su modelli di crescita basati sugli anelli misurati nella prima parte (ossia la più antica) del legno sano” racconta Piovesan. 

Ma come crescono questi alberi? "Il segreto di lunga vita è una crescita lenta ma che aumenta nel corso dei secoli, una condizione che sembra accomunare molti alberi longevi del pianeta, inclusi i pini loricati del Pollino” spiega Piovesan. In pratica, gli alberi “decidono” anche di crescere poco nelle prime fasi della vita, magari a causa di competizione con altre piante o per via di condizioni climatiche avverse, per poi aumentare più velocemente le dimensioni in una seconda fase e vivere più a lungo. Senza comunque raggiungere altezze importanti: “gli alberi mantengono una dimensione ridotta, intorno ai 15-25 metri, che conferisce loro una maggiore resistenza agli eventi climatici estremi". Non si pensi dunque alle altezze raggiunte dalle sequoie californiane.


Panorama del parco nazionale del Pollino, tra Basilicata e Calabria - foto G. Piovesan

PERCHÉ STUDIARE LE FORESTE VETUSTE
Scoprire, studiare e preservare le foreste vetuste e i vecchi alberi è una priorità assoluta per la conservazione della natura in questa epoca di cambiamenti globali. “Queste faggete vetuste ospitano una biodiversità unica di tante specie di vegetali e animali oggi a rischio di estinzione perché l’uomo nel corso dei secoli ha distrutto quasi dappertutto nei climi temperati questi ambienti di foresta vergine” spiega Piovesan. “Oggi in Italia si cerca di tutelarle anche grazie alla politica del "rewilding "attuata dai parchi nazionali e dai Carabinieri Forestali nel corso degli ultimi decenni” (con “rewilding” si definisce il processo per cui la natura si prende cura di sé stessa, senza intervento umano). Ricordiamo che faggi di oltre 500 anni sono stati rinvenuti in condizioni simili nelle boschi vetusti dei parchi nazionali delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna; e di Abruzzo, Lazio e Molise, tutte faggete riconosciute patrimonio mondiale Unesco nel 2017. 

"Si tratta di politiche ambientali e di ricerche di lungo termine possibili solo grazie a una collaborazione tra parchi nazionali, in questo caso del Pollino che ha finanziato lo studio, e Università, nella fattispecie di questo studio Dipartimento di eccellenza Scienze Agrarie e Forestali dell’Università della Tuscia” conclude Piovesan. "La ricerca viene ora divulgata quale buona prassi per la conservazione degli ecosistemi forestali nell’ambito del progetto FISR-Miur Italian Mountain Lab. Finalità primaria quella di intraprendere la strada dello sviluppo sostenibile in attuazione degli obiettivi previsti nell’ambito dell’Agenda 2030". Un patrimonio per le generazioni future, dunque. E speriamo che Michele e Norman abbiano ancora molti anni di vita davanti a sé.

La faggeta vetusta nel parco nazionale del Pollino - foto G. Piovesan