Nell'epoca in cui il sogno di chi viaggia è spesso di alloggiare in un hotel a 5 stelle o in un resort dotato di Spa, la parola “ospizio” parrebbe evocare luoghi, i ricoveri per anziani, da cui tenersi alla larga quanto più possibile, se non altro perché evocano l'avvicinarsi dell'ultima ora. Una prospettiva inevitabile ma che sembra fare a pugni con il desiderio di muoversi, conoscere, rilassarsi. Eppure, la storia e l'etimologia stessa raccontano un'altra storia.

Ci fu un'epoca in cui, per chi affrontava i viaggi più faticosi e rischiosi, alloggiare in un ospizio era quanto di meglio si potesse augurare. Perché l'ospizio, fedele alla radice latina della parola hospes, ospite, era proprio un edificio voluto per dare alloggio (“ospitare”) forestieri e pellegrini, mettendoli al riparo da lupi e briganti, o quanto meno dal freddo e dalla fame. Avveniva nel Medioevo, quando un gran numero di “domus hospitales” sorsero lungo gli ardui percorsi che collegavano i due versanti della catena alpina. Gli ospizi del Gran San Bernardo, del Sempione, del Gottardo sono più o meno noti a tutti, anche dopo che i trafori stradali e ferroviari li hanno isolati in cima a passi ormai percorsi solo dai pochi che non hanno fretta. In realtà, però, dal Piemonte al Friuli, dalla Svizzera all'Austria, sulle vette e nelle valli, piccoli come rifugi alpini o grandi come abbazie, gli ospizi sorti nel Medioevo erano centinaia, e con una caratteristica che oggi verrebbe apprezzata dai tanti che percorrono il Cammino di Santiago o la Via Francigena: chi vi si fermava a dormire e a mangiare non pagava un soldo. Sant'Agostino, del resto, lo aveva ben raccomandato: “Praticate l'ospitalità, attraverso la quale si giunge a Dio. Accogli l'ospite del quale tu sei compagno di strada, dal momento che siamo tutti pellegrini”. E san Benedetto non era da meno: “Tutti gli ospiti che giungono in monastero siano ricevuti come Cristo”.


Alpe San Romerio, Brusio, Svizzera - foto C. Meazza

LA MOSTRA A MILANO
All'epopea degli ospizi alpini è dedicata una originale mostra, “Hospitia. Mille anni di accoglienza e ospitalità sulle Alpi”, realizzata dall'associazione culturale Ammira di Varese e visitabile a Milano, presso Palazzo Lombardia, in via Galvani 27, fino al 30 novembre (ingresso libero, lun/ven 10-18; sab chiuso; domenica 14-18). Numerosi documentati pannelli, alcuni video e le immagini scattate dal fotografo varesino Carlo Meazza ripercorrono la vicenda di luoghi di accoglienza che hanno concorso a formare l'identità europea, nel loro facilitare gli scambi fra nord e sud delle Alpi, prima di venire sostituiti da locande a pagamento.

Oltre che i famosi ospizi citati prima, compaiono per esempio l'ospizio di Gap in Francia, la canonica di Marbach in Alsazia, San Lorenzo di Oulx, Sant'Antonio di Ranverso in Valle di Susa e l'abbazia della Novalesa in Piemonte, l'ospizio di San Bernardino e le abbazie di Disentis e di San Gallo in Svizzera, l'abbazia di Novacella e il Klösterle di Egna sulla strada del Brennero, San Pellegrino in Alpe sopra Moena e l'ospizio di San Martino di Castrozza in Trentino, fino a San Tomaso di Majano in Friuli.


S. Pietro in Mistail​, Albula, Svizzera

CARLO MAGNO E I PELLEGRINAGGI
Si scopre poi che grande “padrino” della diffusione degli hospitia sull'arco alpino sarebbe stato niente meno che Carlo Magno, mosso tanto da ragioni religiose quanto politiche: a lui la leggenda ha attribuito la fondazione di parecchi monasteri alpini, fra cui San Pietro al passo dell'Aprica e soprattutto l'abbazia benedettina nella svizzera Val Müstair o Val Monastero, dove il re franco transitò, diretto a Roma per essere incoronato. L'ex abbazia, sorta in posizione strategica fra Engadina, Val Venosta e Valtellina, conserva straordinari affreschi carolingi del IX secolo (fra cui una delle prime rappresentazioni di Giudizio universale) che gli hanno valso l'inserimento nel Patrimonio Unesco.

Numerosissime in quegli anni le strutture sorte nella diocesi ora elvetica di Coira, ma anche in Piemonte, dove l'abbazia della Novalesa fu fondata sulla strada del Moncenisio già nel 726. Erano proprio le diocesi e i monasteri, in genere, a realizzare più piccole strutture di accoglienza, disseminate lungo i percorsi alpini. A gestirle erano in genere religiosi, monaci o canonici regolari, seguaci in genere delle regole di sant'Agostino o di san Benedetto. Dall'XI secolo in poi in alcuni casi si aggiunsero anche conversi e converse, ovvero laici che seguivano una regola religiosa. E dal XII secolo diverse case alpine furono aperte da ordini religiosi nati nel clima delle Crociate, come gli Ospitalieri di San Giovanni in Gerusalemme, gli Ospitalieri di sant'Antonio e i Cavalieri Teutonici: loro obiettivo primario era, ovviamente, rendere più agevoli e praticabili i pellegrinaggi verso Gerusalemme e la Terrasanta.

Sin dall'inizio, del resto, gli ospizi alpini erano sorti lungo le direttrici dei tre grandi pellegrinaggi medievali, quelli che si dirigevano a Santiago de Compostela, a Roma e a Gerusalemme. Una motivazione religiosa per la quale chi costruiva o finanziava chiese e luoghi di accoglienza avrebbe avuto diritto alla vita eterna, come attestano diversi antichi documenti. Un merito, verrebbe da dire, centuplicato per chi s'industriava a rendere valicabili passi alpini dov'era davvero facile lasciarci la pelle, come attestava nel 1402 il gallese Adam di Usk nel resoconto del suo periglioso viaggio verso Roma: “Attraverso il monte Gottardo e l'eremitaggio sulla cima, trasportato su un carro tirato da buoi, quasi morto per il freddo e la neve, con gli occhi bendati per non vedere i pericoli del luogo, sono giunto a Bellinzona in Lombardia la vigilia della Domenica delle Palme”.


Santo Spirito, Vipiteno - foto Carlo Meazza

GLI OSPIZI DEL SAN BERNARDO OGGI
E oggi? C'è ancora qualcuno che tiene vivo non solo il ricordo ma anche lo spirito di questi “mille anni di accoglienza sulle Alpi”. Per esempio i canonici di San Bernardo che custodiscono per tutto l'anno gli ospizi del Gran San Bernardo e del Sempione, al confine fra Italia e Svizzera, rimanendo isolati per lunghi mesi per via della chiusura del passo da ottobre a marzo. I cani San Bernardo, che ancora oggi abitano un allevamento sul lato svizzero del passo, sono eredi del famoso Barry I che fra il 1800 e il 1814 salvò almeno 40 persone finite sotto le valanghe (a proposito, in mostra si scopre che la famosa botticella di liquore al collo dei cani da salvataggio è una fake news ottocentesca, inventata e diffusa dal pittore inglese Edwin Landseer).

I canonici si trovano ad aprire le porte, più che ai pellegrini, agli escursionisti e, d'inverno, a qualche avventuroso scialpinista, ma loro restano ugualmente a custodire l'ospizio, fedeli a una vocazione particolare e profonda, quella indicata da san Bernardo d'Aosta, l'”apostolo delle Alpi” del quale un'antica preghiera recita: “Grazie a Bernardo quello che era un inferno è divenuto un luogo celestiale”. La stessa vocazione proclamata in un pannello della mostra da José Mittaz, priore al Gran San Bernardo fino al 2016: “Fintanto che ci saranno uomini e donne ad attraversare questo colle, finché aspireranno a essere accolti e riconosciuti nella loro sete di esistere, il senso della nostra presenza qui resterà vivo”. 

 
San Gaudenzio a Casaccia, Bregaglia, Svizzera

INFORMAZIONI
"Hospitia. Mille anni di accoglienza e ospitalità sulle Alpi"

Mostra a cura dell'Associazione culturale Ammira di Varese
Palazzo Lombardia, via Galvani 27, Milano, fino al 30 novembre
Ingresso libero (lun/ven 10-18; sab chiuso; domenica 14-18).