In televisione, sui giornali, persino in libreria e nei podcast siamo circondati da indagini e da casi irrisolti, da “scene del crimine” e da “delitti imperfetti”. Avevamo bisogno anche di un museo, per farci raccontare tutto questo? Per capirlo, siamo andati a visitare (l’apertura al pubblico avviene dal 2 novembre, anche grazie all’accoglienza dei soci volontari Touring e del progetto Aperti per Voi) il MUSA, il nuovo museo milanese di cui vi avevamo annunciato l’inaugurazione qualche giorno fa. Qualcosa dovevamo già intuire dall’acronimo, che sta per “Museo Universitario delle Scienze Antropologiche, mediche e forensi per i Diritti Umani”, un nome lungo e complicato da ricordare ma che evidentemente riunisce tre concetti importanti per chi l’ha ideato: si evince infatti che si tratta di un museo universitario, per cui dovremmo essere ben lontani dalle semplificazioni di una fiction in prima serata; di un museo interdisciplinare, dove tre scienze sono considerate complementari, e quindi già complesso e articolato di suo; e soprattutto, di un museo “per i diritti umani” - nel senso che, stando ai comunicati stampa, vorrebbe mostrare quanto sia fondamentale il ruolo di queste scienze nella lotta alla violenza e nella tutela dei diritti umani. Sono parole che già circoscrivono un perimetro e delineano il pensiero di chi l’ha concepito. Ma poi bisogna vedere come le parole si traducono nella realizzazione museale.
IL VALORE DELLE OSSA
Seguendo le orme per terra, eccoci allora nell’edificio di via Ponzio, all’interno di un cortile di uno dei plessi universitari di Città Studi. Si entra subito in medias res in una stanza introduttiva dedicata alla lettura del corpo e delle ossa: ovvero a come un corpo morto, e in particolare lo scheletro, possano rivelare identità, vita e morte della persona. Sei pannelli alle pareti raccontano come l’antropologia e la medicina legale – ma anche molte altre scienze, tra cui l’entomologia, la botanica, l’archeologia – collaborino tra loro per capire il sesso di un cadavere, l’etnia, l’età, le condizioni fisiche, la violenza subita, l’epoca della morte. Giusto per fare un esempio, si vede quanto strozzamento, impiccamento e strangolamento lasciano segni diversi sulla gola; o come, in un bosco, si riesca a stabilire il momento del decesso grazie alle interazioni di flora e fauna con il corpo. I pannelli sono interessanti e facili da seguire: è la parte che più appare vicina alle immagini che abbiamo visto tante volte nelle indagini televisive o alle descrizioni dei romanzi gialli, anche se naturalmente la precisione scientifica qui è alla base del racconto.


Museo Universitario delle Scienze Antropologiche, mediche e forensi per i Diritti Umani, Milano - foto Stefano Brambilla


Museo Universitario delle Scienze Antropologiche, mediche e forensi per i Diritti Umani, Milano - foto Stefano Brambilla
 

La seconda sala, in realtà un corridoio suddiviso in camere, è già più sorprendente: perché ad accogliere il visitatore, all’interno di decine di vasche trasparenti, ci sono decine di scheletri. Come spiega un pannello, si tratta di una parte della CAL, la Collezione Antropologica del Labanof (il Laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università Statale di Milano): una delle collezioni scheletriche più grandi al mondo, costituita nel 2017 e composta da quasi 10mila scheletri provenienti da Milano e dalla Lombardia, di ogni epoca storica (parte proveniente da necropoli antiche, parte da cimiteri moderni e da resti non reclamati). Ogni vasca è etichettata con tutto quello che sappiamo dello scheletro al suo interno. Ed appare subito chiaro come le ossa siano “il nostro ultimo e migliore testimone, non mentono mai e studiarle significa ascoltare l’ultima cosa che hanno da dire le persone cui appartenevano” (citazione dell’antropologo Clyde Snow): perché attraverso queste ossa possiamo capire chi erano e come vivevano i milanesi in epoca romana, medievale, seicentesca.

Per esempio, in epoca romana l’aumento del tartaro sui denti palesa un cambiamento di dieta; o in periodo medievale le ossa dell’orecchio e del naso mostrano maggiori infezioni e infiammazioni alle vie aeree rispetto alle epoche precedenti, e quindi si può evincere un peggioramento dell’ambiente di vita. A riassumere i concetti alcune animazioni video, ben disegnate, adattissime anche ai ragazzi, in cui varie persone raccontano come le condizioni di vita incidevano sul loro corpo; evidente anche l’intento di far riflettere su quanto i problemi di epoche lontane, come le violenze o le fatiche lavorative, possano essere anche quelli attuali. Una parte ben riuscita, insomma, in cui si inizia a capire quanto le ossa siano importanti per stabilire l’identità, le malattie e le cause di morte violente su resti umani, e più genericamente per capire meglio la nostra storia. Ne avremmo voluto sapere anche di più: speriamo che la sistemazione finale del museo, che nelle intenzioni dei curatori dovrebbe trasferirsi tra qualche anno in un attiguo edificio più grande, possa in futuro riservarci altri dettagli.


Museo Universitario delle Scienze Antropologiche, mediche e forensi per i Diritti Umani, Milano - foto Stefano Brambilla


Museo Universitario delle Scienze Antropologiche, mediche e forensi per i Diritti Umani, Milano - foto Stefano Brambilla

IDENTITÀ E DIRITTI

Nella terza sezione, dedicata all’identità, l’impatto emotivo sale. Non tanto per quello che contiene – anzi, la sala è piuttosto spoglia, ad accogliere i visitatori sono soltanto pannelli e video, senza alcun oggetto o immagine forte; quanto per la sua concezione e il suo messaggio. Perché, leggendo e guardando i video, è inevitabile porsi domande. Come potrei stare io, se sapessi che il corpo di un mio caro non viene più ritrovato? O come potrei elaborare un lutto, se mi mancassero certezze sulla sorte di chi è morto? Alcune persone che hanno avuto la sfortuna di trovarsi in queste condizioni ci raccontano in toccanti video il loro angosciante percorso: Adele Pesapane Scarani ha dovuto aspettare 15 giorni perché il corpo di suo marito Maurizio, tra le 188 vittime del disastro aereo di Linate del 2001, fosse identificato; per Mimoza Merkaj ci sono voluti 25 anni, prima che il corpo ritrovato nell’Adda fosse associato a quello di sua sorella, di cui non aveva più avuto traccia una volta emigrata in Italia dall’Albania. “Identificare i morti è fondamentale per ragioni legali, amministrative, etiche” ci spiega un pannello. “Soprattutto per evitare la perdita ambigua, ovvero la mancanza di certezze sulla sorte di una persona, che può portare a disturbi e malattie”.

Già, ci pensiamo sempre troppo poco: l'identificazione di un corpo non è solo una questione di dignità, ma anche di diritto alla salute fisica e psichica dei vivi, e anche di diritti materiali, come eredità e proprietà. Non si può non ingoiare un boccone amaro, nel leggere alle pareti quanti sconosciuti siano morti il 18 aprile 2015 nel canale di Sicilia; e non si può non capacitarsi di quanto sia ancora difficile, in epoca di globalizzazione tecnologica e di mega database, incrociare a livello mondiale i dati ante mortem e post mortem per consentire l’identificazione delle persone. Qui i messaggi del Labanof, che ha realizzato il museo con il supporto di Fondazione Cariplo, Fondazione Isacchi Samaja Onlus e Terre des Hommes, ed è impegnato da 25 anni nella didattica e nella ricerca scientifica su tematiche forensi, sono ben chiari e, se vogliamo, diventano anche polemici e politici: ma dubitiamo che un essere umano, a prescindere da appartenenze, possa essere in disaccordo su un tema che ci accomuna così tanto.


Museo Universitario delle Scienze Antropologiche, mediche e forensi per i Diritti Umani, Milano - foto Stefano Brambilla


Museo Universitario delle Scienze Antropologiche, mediche e forensi per i Diritti Umani, Milano - foto Stefano Brambilla

Nella quarta sala si respira un po’ di più, per lo meno perché si torna nuovamente a un tema più vicino a quanto già conosciamo. Si parla infatti di “Crime”, ovvero di Crimine, e di patologia forense, che è la disciplina che studia i cadaveri per capire se la morte sia avvenuta per mano di terzi. A spiegare sopralluoghi, autopsie, indagini di laboratorio, perizie e ricostruzioni dei fatti sono due diorami ben riusciti, tra cui quello di un cadavere ritrovato nel baule di una macchina: una scena del crimine indagata in ogni particolare, tutta da leggere e da comprendere.
A essere interessanti, a nostro avviso, sono in particolare due aspetti: l’importanza dell’interdisciplinarietà, della collaborazione tra scienze diverse, nel risolvere un caso (scienze che naturalmente hanno collaborato alla ideazione dei pannelli e dei casi); e l’importanza delle autopsie, esterne e soprattutto interne, strumento indispensabile per indagare non solo le morti sospette o non chiare, ma anche per conoscere malattie nascoste e pericoli per la società – molti Paesi, ci spiega un pannello, lamentano un calo delle autopsie, viste spesso come lesive della dignità della persona, autopsie che invece sono fondamentali per conoscere per esempio femminicidi, morti in culla, maltrattamenti, abusi, infezioni ambientali e così via. 


Museo Universitario delle Scienze Antropologiche, mediche e forensi per i Diritti Umani, Milano - foto Stefano Brambilla


Museo Universitario delle Scienze Antropologiche, mediche e forensi per i Diritti Umani, Milano - foto Stefano Brambilla
 

UN CASO ESEMPLARE
L’ultima sezione è dedicata ai “viventi”: l’obiettivo è quello di evidenziare quanto le discipline come la medicina legale, che studiano il corpo e gli esiti della violenza, siano fondamentali anche e soprattutto per la tutela dei vivi e dei loro diritti. Si riflette su quanto i segni sui corpi, se colti dalla medicina, possano aiutare a tutelare vita e salute dei pazienti. Un traguardo molto importante, se si pensa che in Europa la violenza causa quasi il 6% di tutte le morti e il 10% di condizioni di disabilità permanente. Attraverso vari pannelli, i curatori del museo ci fanno poi ragionare su quanto anche la povertà sia una violenza indiretta e di quanto le scienze mediche, se messe a disposizione in modo uguale per tutti, possano e debbano contribuire a tutelare i diritti alla vita e alla salute di tutti. È senz’altro il punto di arrivo del percorso; quello in cui si comprende cosa significasse quel “per i Diritti Umani” nel nome del museo. Qui bisogna soltanto leggere e pensare, non ci sono oggetti, diorami o testimonianze; a stimolare il pensiero sono invece cinque postazioni dedicate alle diverse forme di maltrattamento, con pannelli densi (forse troppo) di dati scientifici e legali, accompagnati da animazioni esemplificative. 
Il museo potrebbe finire anche qui, nel senso che avrebbe già raggiunto il suo obiettivo e risposto alla domanda iniziale. Sì, avevamo bisogno di un museo del genere, un museo piccolo e introduttivo, se vogliamo, ma essenziale per capire una volta di più come la fiction, nel nostro pensiero, non possa sostituire la scienza; per ricordare l'importanza dei diritti umani, a partire dall'identità; per comprendere come la scienza possa aiutarci a ricostruire chi eravamo e a migliorare chi siamo ora. 

Ma c'è ancora una tenda nera, prima di tornare indietro. Al di là un’ultima saletta, dedicata al naufragio della notte del 18 aprile 2015 e alle sue mille giovani vittime: il più grande disastro legato alle migrazioni mai capitato nel Mediterraneo, avvenuto al largo della Libia. Il facsimile di un pezzo del relitto, il frammento di una lettera, un filmato che racconta l’operazione scientifica, denominata Melilli, che ha portato all’estrazione dei corpi dallo scafo: poche cose, ma sufficienti a mettere insieme tutto quello che si è letto nelle sale precedenti. La dignità dei morti, la loro storia, la loro identità; i diritti dei familiari e di chi aspetta a casa di avere notizie; l’importanza del lavoro e dello studio delle università italiane e dei vari corpi coinvolti, dalla Marina ai Vigili del Fuoco; l’esempio di ciò che possono fare le scienze forensi per la tutela dei diritti umani. Solo sei persone di quel disastro sono state finora identificate. E se fossimo stati noi, quei migranti sul barcone? 


Museo Universitario delle Scienze Antropologiche, mediche e forensi per i Diritti Umani, Milano - foto Stefano Brambilla


Museo Universitario delle Scienze Antropologiche, mediche e forensi per i Diritti Umani, Milano - foto Stefano Brambilla

INFORMAZIONI
MUSA, via Ponzio, 7, Milano. Per info e prenotazione gruppi: musa@unimi.it.
Il Museo è aperto al pubblico a partire da mercoledì 2 novembre con ingresso gratuito, con i seguenti orari
- martedì: 14-18; 
- mercoledì: 14-18, con accoglienza dei soci volontari del Touring Club Italiano; 

- giovedì: 14-18; 
- venerdì: 9-18 (dalle 14 alle 18 con accoglienza dei soci volontari del Touring Club Italiano); 
- sabato: 9-13, ultimo ingresso alle 12, con accoglienza dei soci volontari del Touring Club Italiano. 
La nascita di MUSA è stata possibile grazie al supporto di Fondazione Cariplo, Fondazione Isacchi Samaja Onlus e Terre des Hommes. Il Museo ha avuto il patrocinio di S.I.M.L.A., Società Italiana di Medicina Legale e delle Assicurazioni e di OMCeO Milano, Ordine Provinciale dei Medici Chirurghi e degli Odontoiatri di Milano.