Ogni tanto si sente profumo di gelsomino, a Mozia, anche se di gelsomini a Mozia non ce ne sono. «Giuseppe Whitaker amava la colonia al gelsomino...» sorride Pamela Toti, archeologa, mentre ci racconta delle straordinarie storie di un gentleman inglese arrivato in terra trapanese per il boom del marsala e poi innamoratosi di un’isola in mezzo alle acque basse dello Stagnone. «Voleva trovare l’antica città fenicia di cui parla Diodoro Siculo, distrutta dai Cartaginesi, abbandonata, scomparsa nel tempo. La trovò». Mozia ci accoglie con il sole, l’aloe fiorita, le saline che luccicano, il canto dei cardellini tra i pini. Tutto parla di Whitaker, che per primo intuì, scavò, collezionò: le rovine, i mosaici, il museo, dove ancora sono le vecchie, splendide bacheche allestite da Giuseppe. E pure quel giovinetto del V secolo avanti Cristo che troppo spesso è in giro per il mondo, invece di soggiornare nella sua isola. E che infatti quando la visitiamo non c’è. Ammiriamo invece antichi rostri appena recuperati nelle acque di Levanzo. «Sono quelli delle navi che hanno combattuto la battaglia delle Egadi, Roma contro Cartagine, 241 a.C.» racconta Toti. Stratificazioni di popoli antichi, racconti di convivenze e di contrasti, di distruzioni e rinascite. Storie che si ripetono, in quest’angolo occidentale di Sicilia.
Le raccontano in primis le mirabolanti colonne di Selinunte, quelle accatastate le une sulle altre del tempio G e quelle appena estratte dalla pietra delle cave di Cusa, affascinante luogo perso tra gli ulivi dove i Selinuntini andavano a rifornirsi di calcarenite. Enormi, giganteschi cilindri spezzati che fanno pensare a grandi, prospere civiltà; pezzi tuttavia devastati, quelli del tempio, e abbandonati in fretta e furia, quelli delle cave, che fanno pensare a civiltà che distruggono altre civiltà, alla storia che rincorre la storia.
Ma le storie di stratificazioni di popoli le raccontano anche i centri urbani, come Mazara del Vallo. Basta fare un giro per la casbah per rendersene conto: da una finestra esce profumo di cous cous, in un cortile bambini dai tratti slavi giocano a pallone, una famiglia tunisina esce dalla porta e saluta. Da tempo la comunità è integrata, da tempo sui pescherecci si parlano quattro, cinque lingue.
Mazara è una vera sorpresa: e non solo per quel satiro danzante che troneggia nel museo a lui dedicato, riccioli al vento e occhi invasati. Mazara è una sorpresa perché sta riuscendo a fare della stratificazione un punto di forza e attrazione, che ribalti quell’immagine obsoleta di città di mare e di null’altro. La casbah, quartiere a impronta araba a due passi dalla Cattedrale del Seicento, è stata ripulita, rimbiancata e decorata da centinaia di formelle colorate che raccontano la storia multiforme della città. Tante sono le chiese ristrutturate, quella barocca del Carmine che è stata trasformata nell’aula consiliare probabilmente più scenografica d’Italia; e quella di S. Michele, apoteosi di stucchi bianchi. «Venite, vi porto ad assaggiare i muccunetti» ci dice Salvatore, che a S. Michele abita davanti e di S. Michele ha le chiavi. Suona al convento benedettino a fianco, ordina cinque euro di dolci, una misteriosa figura dietro una grata depone in un tornello girevole un sacchetto. Scene d’altri tempi. La zucca candita è sublime, la grata si chiude.
Il cous cous accanto al muccunetto, come la pasta di mandorle vicino al marsala che un tempo fu degli inglesi. La stratificazione passa anche dalla gastronomia, come sempre, e in terra siciliana ancora di più. Mangiamo superbi frutti di mare, origano fresco, arance che più profumate si potrebbe svenire, tonno al pistacchio, spezie al sapore d’Oriente, cannoli talmente fragranti da causare code per le vie della piccola Dattilo («Merito della ricotta: più fresca della nostra non si trova» ci dicono all’Eurobar tra un goloso e l’altro).
A Trapani c’imbattiamo nel corallo rosso: al bellissimo museo Pepoli, ospitato nel convento dell’Annunziata, Daniela Scandariato ci educa su una produzione artigianale che vide i suoi secoli d’oro nel Seicento e Settecento. «Nelle nostre sale si possono ammirare oggetti lavorati con diverse tecniche. Dapprima il corallo veniva incastrato nel rame, poi legato con piccoli fili metallici. E i trapanesi erano maestri». Vero: scrigni portagioie, crocifissi, calici, gioielli, persino un enorme paliotto da altare lasciano sgomenti per la raffinatezza e la sovrabbondanza di materiali, figure, dettagli. Ma il bello è che la storia non finisce in qualche vetrina. Anche se il prezioso materiale ormai non è più pescato nelle acque di Trapani, per le strade della città i negozi espongono oggetti di design in corallo. E al museo due studenti del locale istituto d’arte mostrano a una scolaresca come si lavorano i rametti rossi. La tradizione continua.
INFO.
Riserva Saline di Trapani e Paceco: tel. 0923.867700; www.wwfsalinediTrapani.it. Visite anche con www.salinenatura.it. Mozia: tel. 0916.820522; www.fondazionewhitaker.it. Museo Pepoli a Trapani: tel. 0923.553269; Museo del Satiro a Mazara: tel. 0923. 933917; www.regione.sicilia.it/beniculturali/museopepoli/IndexPepoli.html.