Questo è il racconto di due giorni in bicicletta in Sardegna, nel profondo entroterra di Sassari, che ci hanno mandato Luca Zironi e Francesca Schintu, due appassionati cicloturisti: laurea in filosofia lui, laurea in architettura e dottorato in storia dell'architettura lei, amano esplorare l'Italia percorrendo le principali ciclabili sparse sul territorio, cercando di lasciare qualche resoconto scritto, per fare un po' di "proselitismo alla causa". Seguite le loro tracce!
TAPPA 1 - NEL MEILOGU, LA TERRA DI MEZZO
Il Meilogu, letteralmente terra di mezzo, sul finire delle estati più torride ricorda più il Far West che il Signore degli Anelli. La stazione di Bonorva, decisamente molto minimal, sembra sprofondata in una buca ai margini del paese che si sviluppa su un costone dell’altopiano di Campeda. I treni da Cagliari con trasporto bici, però, passano regolarmente. Nella piazza principale tutti conoscono tutti e, a giudicare da come ci guardano, sembra che ci sia una certa urgenza di sapere chi siamo e perché veniamo. Ma lo spontaneo presidio della comunità anticipa solo di pochi attimi una dilagante ospitalità, condita da un eccezionale repertorio di leccornie tipiche.
Assolutamente imperdibile il pane tradizionale di Bonorva, “su Zichi”, che racchiude nella sua forma circolare tutti i segreti della lievitazione naturale, tramandata di generazione in generazione. Ce ne assicuriamo una discreta scorta (sia nella versione morbida che in quella più croccante), fiduciosi che lo Zichi, all’occorrenza, possa riconvertirsi magistralmente in uno snack da bici.
La strada provinciale per Bono, dove il traffico è praticamente nullo, si rivela un’inedita ciclovia tra monumenti geologici e vulcani spenti. Il paesaggio dal fascino magnetico, ormai infiammato da mesi di sole incessante, ci riserva una lunghissima serie di preziose testimonianze archeologiche, che spaziano dai misteri della preistoria agli intrighi del Medioevo giudicale (quando la Sardegna era divisa in quattro regni autonomi, detti “giudicati”).
Pedaliamo piacevolmente per cinque chilometri in questa porzione dell’antico giudicato di Torres, seguendo le indicazioni per il borgo medievale di Rebeccu fino alla chiesetta romanica di San Lorenzo. Il minuscolo paese fantasma, quasi completamente abbandonato (dal 2007 conta un solo abitante!), sembra ancora scontare l’anatema della principessa Donoria, accusata di stregoneria e per questo scacciata tra gli sberleffi del popolo, mentre prediceva a gran voce che Rebeccu non avrebbe mai superato le trenta case.
Sotto il sole di Bonorva, nel territorio di Rebeccu (SS) 
I fili di storia e leggenda si dipanano dalla stessa matassa e tutt’intorno regna un’atmosfera tanto surreale quanto intrigante. Lo spirito è quello giusto per avventurarci verso la fonte sacra di “Su Lumarzu”, un vero gioiello di epoca nuragica, che colpisce per l’accuratezza della muratura in conci di basalto ben squadrati. La celletta dove si raccoglie la preziosa vena sorgiva è preceduta da un atrio lastricato con bassi sedili in pietra che ospitavano i devoti durante le cerimonie sacre. Il sito, nascosto nell’intrico della vegetazione, dista appena 300 metri dall’abitato medievale, ma bisogna imbucarsi in un sentiero poco agevole per le biciclette. In ogni caso, a meno che non siate alla ricerca di visioni mistiche, è meglio abbeverarsi altrove. Prima di tornare sulla provinciale per Bono, restituiamo vigore alle nostre borracce grazie ad una grande fontana scovata tra i vicoli di Rebeccu.
I cartelli per la necropoli di Sant’Andrea Priu ci impongono un’altra deviazione nel bel mezzo della piana di Santa Lucia, lungo una stradina bianca che nel giro di cinque chilometri si addentra nel mondo incantato delle “domus de janas”, letteralmente “case delle fate”. La tradizione popolare vuole che le janas (un po’ streghe e un po’ fate, più o meno benevole, ma sempre di corporatura minuta) trascorressero il tempo a tessere preziosi filati su telai d’oro nelle loro casette scavate nella roccia, che in realtà erano le antichissime tombe della Sardegna prenuragica.
La fonte sacra di Su Lumarzu
Queste necropoli ipogeiche si diffondono in tutta l’isola tra il IV e il III millennio a.C., ma se volete visitare uno dei complessi più grandiosi e meglio conservati, Sant’Andrea Priu è senza ombra di dubbio il posto giusto per voi! Vi accompagneranno alla scoperta del sito le ottime guide della cooperativa Costaval, che gentilmente ci hanno concesso di parcheggiare le biciclette all’interno del recinto dell’area archeologica.
Alcune delle tombe riproducono realisticamente le abitazioni in uso nel Neolitico finale, con tanto di pilastri e travature del tetto scolpiti nella trachite, affinché il defunto si sentisse a casa anche nell’aldilà. La tomba cosiddetta del Capo, poi, è davvero sorprendente: si articola in un labirinto di 18 ambienti, con tre vani in successione (a partire dall’ingresso) molto più ampi degli altri, tanto che nel periodo bizantino sono diventati rispettivamente il nartece, l’aula e il presbiterio di una chiesa cristiana (non mancano neanche le testimonianze di un riuso romano di questi spazi). Completano il quadro i meravigliosi dipinti bizantini che ritraggono gli episodi più salienti dell’infanzia di Gesù, sotto un cielo ipnotizzante di motivi geometrici, che non ti aspetteresti mai di trovare dentro una sepoltura pagana scavata nella roccia dai sardi vissuti 5000 anni fa!
Bonorva, la necropoli di Sant'Andrea Priu
È tempo di andare, anche perché la maggior parte dei chilometri sono ancora tutti da pedalare. Arriviamo sul tratto più duro della provinciale con il sole a picco. La salita è lunga e dolorosa, ma certi scorci maestosi ci rassicurano sulla bontà delle nostre scelte cicloturistiche (anche se qui un’e-bike sarebbe stata a dir poco provvidenziale). Nel frattempo abbiamo varcato il confine del Goceano, un’altra sub-regione della Sardegna settentrionale senza sbocchi al mare, come il Meilogu. Il paesaggio però muta sensibilmente: le fertili piane intramezzate dai crateri vulcanici della “terra di mezzo”, danno il cambio ad un vasto sistema di foreste ricche di lecci, roverelle, sugheri, tassi e aceri. Alla fine della salita ci troviamo immersi nel silenzio conciliante della vetta di Foresta Burgos, a 800 metri sul mare, con la graditissima compagnia di un branco di asinelli grigi e albini. Un’ombrosa area pic-nic e una fontana sono più che sufficienti per rendere giustizia al nostro pranzo al sacco, in cui rispolveriamo con gusto “su Zichi” di Bonorva.
Foresta di Burgos, il nuraghe Costa
Questo era anche il regno del cavallo anglo-arabo sardo, selezionato prima per scopi militari e poi per compiti sportivi. Nella frazione di Foresta Burgos, diversi caseggiati abbandonati testimoniamo di un passato poco remoto fatto di allevamenti, scuderie, ippodromi e corse.
Prendiamo un caffè in un bar stile spaghetti-western, prima di inoltrarci nel fitto del bosco dove si nasconde l’immenso nuraghe Costa, nei pressi delle omonime scuderie. Le strutture emergono un poco alla volta da questa giungla nostrana e, immediatamente, vestiamo i panni di improbabili Indiana Jones in bicicletta, alla scoperta del “castello del popolo mai vinto”, (come recita l’articolo di Carlo Figari pubblicato sull’Unione Sarda del 26 agosto 2005, poi riproposto da Giorgio Valdès sul portale Nurnet).
Probabilmente questa era la reggia degli indomiti Iliensi del Goceano, mai espugnata dalle legioni di Roma che erano di stanza a Forum Traiani (l’attuale Fordongianus). Siamo completamente soli in un posto unico, incustodito, di una bellezza spietata. Ci perdiamo tra i lunghi respiri degli alberi secolari che si fondono con i blocchi basaltici delle architetture in rovina. Vaghiamo tra le capanne del villaggio, scaliamo il possente mastio e percorriamo l’eccezionale cammino di ronda dell’antemurale: una muraglia difensiva lunga oltre cento metri, unica in Sardegna. Ce ne andiamo con la voglia di sapere molto di più su questo spazio fuori dal tempo, che meriterebbe certo nuovi scavi, tanti altri studi e molte più visite.
Dal punto di vista del dislivello, dopo la cima di Foresta Burgos, il più è fatto. Ci lasciamo trasportare dalla corrente di una meravigliosa solitudine, ciclonavigando a vista nel Goceano. Finalmente in discesa. A dritta, il castello di Burgos sembra come scolpito direttamente dalla rupe granitica che lo sorregge. Tra queste mura sceglie di spendere il tramonto dei suoi anni, l’ultima giudicessa regnante di Torres, la triste Adelasia, che in seconde nozze aveva sposato il figlio di Federico II di Svevia, Enzo di Hohenstaufen (siamo nel 1238). Nonostante il matrimonio da sogno nella cappella palatina di Ardara, con la corona regale e il manto di ermellino donati alla sposa dall’imperatore in persona, il giovane re coltivava ben altri sogni di gloria, lontano dalla Sardegna, per dare manforte agli eserciti dell’illustre genitore. Adelasia non lo rivedrà mai più e, orgogliosa com’era, chiese e ottenne dal papa l’annullamento del matrimonio per adulterio.
Burgos è un borgo pittoresco fatto di stradine ripide e strette, che condivide con il suo castello una superba vista a 360° sull’alta valle del fiume Tirso. Facciamo un’ultima tappa al Museo dei castelli di Sardegna nel centro del paese, prima di rimettere in attività i motori che, a dire il vero, iniziano a mostrarsi un po’ fiacchi. Per raggiungere Bono si può risalire sulla strada principale, percorrendola per circa sei chilometri, oppure, come abbiamo fatto noi, scendere ancora verso Esporlatu e seguire lo sterrato piuttosto impegnativo dell’ex ferrovia Tirso-Chilivani che passa per Bottidda. Qui, in località Pedra Ruias, vi aspetta una monumentale sughera millenaria. Verso sera si alza all’improvviso un maestrale poderoso, ma noi siamo già in branda in un bell’appartamento dalle ampie vetrate. Il ciclo-computer sentenzia 58 chilometri totali, per 1300 metri di dislivello. Dati importanti, che però un cicloturismo aperto alla nuova frontiera dell’e-bike può valutare con grande serenità. 
La vista su Burgos e il suo castello
TAPPA 2 - LE TERME DI SAN SATURNINO E LA RETE DEI NURAGHI
Il vento al mattino sembra attenuato, il cielo è terso, l’aria risulta elettrizzata. Le bici scalpitano, ma rimarranno parcheggiate ancora per un paio d’ore, perché la padrona di casa vuole accompagnarci in un posto davvero speciale. A circa otto chilometri da Bono, in aperta campagna tra Bultei e Benetutti, si trova un’antica vasca termale romana, liberamente accessibile, con tanto di sedili e tempi di permanenza scritti a matita su di un rudimentale attaccapanni in legno (fondamentale vademecum per gestire i momenti di sovraffollamento). Le terme di San Saturnino, a pochi passi dall’omonima chiesa romanica, sono il nostro piccolo Goceano mare. Immersi a 37 gradi nell’acqua sulfurea, in una cornice così bucolica, i nostri propositi cicloturistici vacillano per più di un attimo.
Eppure non è ancora mezzogiorno quando siamo già sulla strada del ritorno. La ricalchiamo sino all’unico grande incrocio poco prima di Rebeccu. Sulla destra, un lungo rettilineo conduce velocemente al cospetto di uno dei monumenti della civiltà nuragica meglio conservati: il nuraghe di Santu Antine, uno dei castelli dell’età del bronzo più grandiosi. Qui, oltre alle dimensioni e alla precisione costruttiva, colpisce la concezione di un disegno unitario, dove si individuano chiaramente simmetrie e geometrie. Nella pianta, che ricalca un triangolo equilatero con tre torri agli angoli, il rapporto tra pieni e vuoti è perfettamente calibrato, mentre la torre centrale (in origine alta più di 25 metri!) fissa l’equilibrio dell’intera composizione. Percorrere il lungo sistema di corridoi interni e assecondare le interminabili scale elicoidali che abbracciano il mastio, è uno spasso per i visitatori più piccoli, ma anche per quelli più cresciuti. In queste antiche plaghe i nuraghi sono numerosissimi. Formano una rete così capillare che le comunicazioni tra l’uno e l’altro erano praticamente istantanee: con il fuoco di notte e il fumo di giorno.
Prima che faccia buio, ci rimangono ancora una quarantina di chilometri per Bonorva e un paio di ore di treno per Cagliari. Al terminal dell’aeroporto gustiamo la ciciliegina sulla torta di questo piccolo viaggio esclusivo: quelle domande già agitate da Sergio Frau nel suo libro “Le Colonne d'Ercole. Un'inchiesta, si mettono ora in mostra con Omphalos: La Sardegna di Atlante, il primo centro del mondo”. Altri, numerosissimi spunti, per alimentare il fuoco sacro della curiosità.
 
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