Succede alle volte di non aver parole. Non abbastanza almeno. E sentire così il bisogno di aggiornare il proprio vocabolario: arricchirlo di aggettivi e sostantivi per riuscire ad aderire meglio alla realtà. Quante parole conosciamo per descrivere con esattezza le sfumature di colore di una foresta? Rosso porpora, amaranto, granata, oro perlato, marrone beige, brunito, mogano, testa di moro, arancione, aranciato, giallognolo, bordeaux, giallo sole, zafferano profondo. Bisogna aggiornare il proprio vocabolario prima di andare a Santo Stefano d’Aveto.
Accade per esempio che risalendo dal serpentone di curve strette lungo la ex strada statale della val di Nure si arrivi sul passo del Tomarlo e si guardi giù. Faggi e ancora faggi, un mare di foglie che a metà ottobre virano dal verde al giallognolo per sfumare sul color mattone e si preparano a cadere. E poi abeti e pini che segnano macchie di un verde intenso che anche lui andrebbe descritto meglio. E ancora qualche radura dove si disegnano pascoli punteggiati di mucche, mentre più in basso al livello delle borgate di Santo Stefano d’Aveto, iniziano castagneti altrettanto fitti. E ancora boschi, querceti, carpini e ornielli. Si potrebbe essere in Polonia, o in Repubblica Ceca, eppure siamo in Appennino, tra Liguria ed Emilia Romagna.

Questo è il panorama in un giorno d’autunno in cui dense nuvole orlano l’ampia conca della val d’Aveto fino a riempirla come fossero il coperchio di una pentola. In giornate come questa la luce non è quella che ci si aspetterebbe arrivando in Liguria. Non è azzurra, luminosa e intensa, ma è la stessa – un poco più grigia, un poco più spenta  – della pianura Padana. Il mare non si vede e nemmeno si intuisce. Invece in una bella giornata di quelle fredde e terse, quando si sale in alto, sulle vette del monte Penna e gemello monte Pennino, sul monte Maggiorasca che con 1799 metri è la vetta più elevata dell’Appennino Ligure, o sulla sommità del monte Bue lì dove arriva la seggiovia, assicurano che il mare si veda eccome. Ma in definitiva poco importa, perché quella di Santo Stefano d’Aveto è una Liguria diversa, per nulla marinara, assolutamente montana, dove non si va per sentiere il rumore del mare. Del resto il borgo Bandiera Arancione del Touring Club Italiano della provincia di Genova si trova a poco più di mille metri d’altezza, qui in inverno si scia – fondo o discesa –, in estate si viene per prendere il fresco. «Mentre giù ci sono trenta gradi qui ci si mette il golfino». E in autunno? «In autunno si viene per andare a funghi, per passeggiare nei boschi e per mangiare» racconta Sabina Pareti, consigliere in Comune.

E allora è  proprio il caso di addentrarsi in questi enormi e avvolgenti boschi della val d’Aveto. In realtà basta imboccare una strada qualsiasi di quelle che si dipartono dal massiccio castello che domina l’abitato di Santo Stefano, costruito dai Malaspina nel 1164 per presidiare i valichi verso la Pianura Padana, e si è subito in mezzo alla natura. Non è certo un luogo selvaggio, ma la sensazione è di esser finalmente lontani da quell’eccesso di cemento che ci assedia. Qui, come in molte altre zone dell’Italia interna, ad assediare gli abitati è il bosco che guadagna terreno mentre i contadini scompaiono e i terreni agricoli cedono il passo.

Ma almeno tutto il territorio di Santo Stefano d’Aveto ricade nel Parco Naturale Regionale dell’Aveto che ha tracciato una lunga serie di sentieri segnalati e bel tenuti. Camminate in genere semplici, che il Parco ha avuto l’accortezza rara di organizzare ad anello, massimizzando la soddisfazione ed economizzando la fatica. Così per esempio quando si scollina sul passo del Tomarlo il sentiero A5, l’anello del Penna, che parte dal passo del Chiodo a 1.457 metri d’altezza e in due ore e mezza di cammino copre circa 6,5 chilometri bordeggiando sul crinale che divide Emilia Romagna e Liguria e salendo fino alla vetta del Penna a 1.735 metri. La partenza si raggiunge in macchina per resto è un andare tranquillo – c’è una piccola ferrata, ma si può evitare allungando il giro –, poggiando i piedi su un tappeto brunito di foglie di faggio stratificate da anni che rende morbido il terreno e leggero il camminare. Ci si muove all’interno della foresta demaniale del monte Penna. In primavera qui si trovano il giglio di San Giovanni, l’anemone alpino, la viola di Cavillier. In autunno, funghi.

Una quantità enorme di funghi. Bisogna abituare l’occhio al chiaroscuro delle ombre filtrate dal cappello di foglie, mettere a fuoco il sottobosco con le sue mille variazioni d’arancione e poi si iniziano a vedere funghi di ogni specie, edìbile o meno. Alcuni sono piccoli puntini, macchioline di rosso perlate di bianco perfette e solitarie, funghi come quelli che disegnano i bambini. Altri sono in simbiosi con le cortecce, altri ancora se ne stanno sotto sopra, smossi da qualcuno che sperava di aver fatto il colpaccio e invece non ha rispettato le regole della buona gestione del bosco e ha manomesso l’habitat. Altri ancora hanno esaurito il loro ciclo vitale e rimangono lì ad alimentare il terreno. Per coglier funghi ovviamente serve il permesso – in genere costa 10 € al giorno per i forestieri, alcuni giorni la raccolta è proibita, qui tutte le info – ma per passeggiare e ascoltare il silenzio della foresta non serve.  

Spinti da una insana voglia di libertà alle volte si lascia il sentiero, la foresta è così fitta e uguale a se stessa che ci si fa un’idea di dove andare solo seguendo l’inclinazione del pendio. Addentrandosi tra alberi alti venti, trenta metri si sente solo lo scricchiolio delle foglie sotti i piedi e i radi suoni del bosco: un ruscello da qualche parte, un uccello che salta tra i rami, il vento che genera attrito tra le foglie. La val d’Aveto con le sue foreste demaniali è un vero regno di austera bellezza.

Finito di camminare in tanta immensità arborea essendo autunno di riflesso viene voglia di polenta, funghi e formaggio, altro che pasta al pesto o acciughe. Nella foresta del Penna c’è un rifugio moderno, le casermette del Penna, che casca a puntino. Sulla piastra arrostiscono generose fette di San Stè, come ormai è conosciuto il formaggio tradizionale di Santo Stefano d’Aveto. «È un formaggio che stagiona sessanta giorni, dal gusto amarognolo e saporito» racconta  Claudio Carpanese, titolare dell'azienda agricola a Parerto con spaccio, tel. 338.6140454. Le sue cinquanta mucche lo producono a Pareto, che è solo una della ventina di frazioni di Santo Stefano. «Si ottiene dalla lavorazione del latte crudo, non pastorizzato. Quello prodotto in estate ha una grande varietà di sapori dovuta alle erbe aromatiche dei pascoli qui intorno, pascoli talmente unici che altrove non si riesce a produrre il San Stè» prosegue Carpanese. Ma chi viene a Santo Stefano vuole provare anche un altro formaggio, il sarasso. «In dialetto si chiama sarazzò ed era un modo per conservare la ricotta che non si consumava. La si pressava, la si salava e metteva a stagionare, ottima da mangiare con la polenta o con le patate lesse» spiega Carpanese. Meglio se sono patate quarantine bianche, la verità tipica della montagna genovese, la più antica e gustosa.  Anche qui servirebbero parole più precise per descrivere sia patate che formaggio, ma forse basta assaggiarli e le parole non servono più.

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Testo: Tino Mantarro - Foto: Giacomo Fè