Quando viaggiare non è un’opzione praticabile per i motivi che tutti sappiamo ed è giusto fermarsi e stare in casa finché l’onda non sarà passata. E dalla poltrona del salotto, dalla sedia in balcone, dal comodo del proprio divano si può comunque continuare a muoversi con la mente mettendo in pratica quello che i britannici chiamano “armchair travel”, ovvero la lettura di libri di viaggio. Reportage che permettono una innocente evasione in compagnia di chi è partito per saziare la sua curiosità o lo spirito d’avventura ed è tornato per raccontarlo. Racconti di prima mano di mondi lontani e diversi, esperienze ricche di passione, empatia e divertimento spesso in zone periferiche che magari mai visiterete, ma che stuzzicano fantasia e voglia di scoprire. E poi, chi lo sa, non è detto che a emergenza finita, non si decida di partire con un libro sotto braccio per visitare i luoghi di cui si è letto in questi giorni…
Ecco la ventisettesima tappa.
 
Lo scrittore angloamericano Bill Bryson è il tipo di persona con cui vorresti passare un intero pomeriggio a far due chiacchiere, magari al bar con una birra. Sarà per via dell’aspetto bonario dato da quel volto tondo, o per via della folta barba rassicurante da vecchio zio americano. Uno se lo immagina che indossa una camicia a quadri di flanella, rossa e nera, da boscaiolo, di sicuro ne avrà una nell’armadio. Non può non averla. E così ci vorresti passare qualche ora anche senza mai averlo visto in faccia, basta aver letto qualcuno dei suoi tanti libri di viaggio per esser certi che saranno ore divertenti e profonde, senza mai esser pesanti e pedanti. Certo, se così non fosse sarebbe una tremenda delusione. Ma visto che non è così probabile che si finisca a bere un caffè con lui non resta che attenersi all’idea che ce ne si fa leggendo i suoi libri di viaggio sempre molto intelligenti, spesso ironici, a tratti oggettivamente spassosi.
Sopratutto Una passeggiata nei boschi (edito in Italia da Guanda), dove Bryson racconta dell’impresa che a un certo punto si è messo in testa di fare: percorrere per intero l’Appalachian trail, circa 3.400 chilometri dal Maine alla Georgia lungo la dorsale montuosa che segue gran parte della costa Est statunitense. Un sentiero che è un po’ il Cammino di Santiago degli Stati Uniti, non fosse che rispetto al Camino ha ben poco di spirituale, e ancor meno di organizzato, anzi è decisamente selvaggio, con lunghe giornate a camminare da soli, notti in tenda e rischi non da poco, soprattutto se capita (e potrebbe capitare) di incontrare un orso. Eppure, nonostante per sua stessa ammissione sia un cammino lungo, difficile e monotono, è anche bello, bellissimo, a tratti illuminante e sopratutto «dimagrante».
Perché il bello di Bill Bryson – la sua unicità forse (o quantomeno lui è stato il primo nel genere “viaggiatore ironico”) – è che non si mette in cammino facendoci credere di essere un supereroe, un maratoneta dal passo lento, un diesel della marcia, uno che non te lo aspetti ma è allenato come un olimpionico, determinato come un fante della prima guerra mondiale, forte come un esploratore ottocentesco. No, tutt’altro. Bryson è un quarantenne completamente fuori allenamento, al secondo giorno è stanco, distrutto. Al terzo tornerebbe indietro. Appena trova una salita più lunga di una collinetta riesce a dire: «Se diventa molto più ripido di questo questo diventeranno un libro di memorie: la fine di Bill Bryson».
Anche perché, ammettiamolo: i libri sui cammini sono un diventati un genere a parte, e ormai non sempre (leggi, quasi mai) riescono a essere interessanti. Non più, almeno. Certo, dipendeda chi li scrive, ovvio. Perché quando John Muir camminò per migliaia di chilometri da Kentucky al Golfo del Messico ne fece un signor racconto, lo stesso dicasi per Robyn Davidson nella sua traversata d’Australia ("Orme"), o per Patrick Leigh Fermor che negli anni Trenta traversò l’intera Europa a piedi. Ma quelli erano altri tempi, o forse altri autori, chissà. Oggi assai spesso certo racconti dai cammini sono più che altro simili a una guida assai dettagliata che a un bel libro di viaggio. Quasi che il camminare per sua natura portasse a scrivere testi più prossimi al diario dove l’esperienza del cammino fa sempre rima con la riscoperta di una interiorità chissà dove dispersa, o quanto meno parcheggiata. 
Per cui «Una passeggiata nei boschi» come ogni buon libro di viaggio è un po’ più che una lunga, lunghissima camminata sull’Appalanchian Trail. Innanzitutto evita il giorno per giorno della sua relativa impresa. Anzi, confessa candidamente di aver deliberatamente tagliato un pezzo del percorso, tutto il North Carolina, parte della Virginia, perché per lui era troppo. Poi non è il solito onemenshow, ma come ogni opera finemente comica ha una degna spalla in Stephen Katz, amico d’adolescenza di Bryson, uno che ricorda Orson Welles dopo una nottata pessima, è ancor meno in forma e dichiara di avere la necessità di mangiare ciambelle ad ogni miglio. Ed è anche un libro dove si impara qualcosa (non tanto, ma pazienza) sul piantare una tenda, decidere che passo tenere, come comportarsi con gli orsi e come prevenire un attacco. Ma si assapora anche qualcosa di più, questo sì, sulla grandezza sconfinata della wilderness americana, così sconfinata che qui in Europa non possiamo neanche immaginarcela.
E in definitiva viene voglia di prendere e partire, perché mentre cammina anche Bryson deve ammettere che a un certo punto «smetti di pensare. Non lo fai più. Invece inizi ad esistere in una modalità Zen, il tuo cervello diventa come un palloncino legato a un filo, che accompagna il tuo corpo, ma in definitiva non fa più parte del corpo sottostante. Allora camminare per ore e miglia diventa automatico, ordinario, come respirare». Per cui mettetevi in modalità Zen, prendetevi il tempo che serve per leggerlo e fatevi qualche piacevole risata. Ma fatelo con calma. Anche perché, come scrive a un certo punto Bryson: «Non c’è alcun bisogno di correre, perché non state andando da nessuna parte».
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