C’è una donna nella notte polare, si chiama Christiane e viene dall’Austria. Non è un’esploratrice, non è un’eroina, non è un’amante dell’estremo: è una donna della buona borghesia viennese, un’artista, ha 37 anni, una figlia e un marito, Hermann. Lui sì invece che ama gli estremi, specie meteoreologici. Comandante di lungo corso, da un paio di anni passa gli inverni alle isole Svalbard, a nord della Norvegia, decisamente oltre il Circolo polare artico.

Del resto, come dice Christiane al principio del libro, Hermann ha sempre avuto un sogno: vivere in una capanna nell’Artide. Le lettere che il marito le invia invitandola a mollare tutto e ad andar da lui almeno per un inverno sono ricche di fascino: raccontano di viaggi e ghiacci, dell’incanto della natura selvaggia, della strana luce che domina il paesaggio, della notte polare. Così ricche che Christiane decide di prendere il biglietto e raggiungere il marito per passare un inverno alle Svalbard. Lui le chiede solo una cosa: «Se hai ancora spazio nello zaino porta per fare del dentifricio, una quantità sufficiente per due persone per un anno, e aghi da cucito». Tutto qui.

Solo che si era nel 1934, non ce ne si andava in giro per il mondo semplicemente per ammirare la bellezza della natura, il silenzio della notte, il bianco dell’inverno, men che meno se si era donne. E invece Christiane partì, con una scorta di bagagli leggermente più vasta dell’ago e dentifricio che chiedeva il marito, ma soprattutto con una voglia immensa di trovare serenità, dipingere e fare un’esperienza a fianco del suo Hermann.

Rimarrà dodici mesi nella notte polare. Alle volte sola per settimane, perché il modo di vivere l’Artico del marito – e del giovane marinaio norvegese che gli fa compagnia – è lo stesso dei pescatori norvegesi cui lui sente di appartenere: andando a caccia, camminando una settimana a meno trenta per andare a recuperare la posta dell’anno, saltando di capanna in capanna lungo il fiordo ghiacciato per sistemare le trappole per le volpi.

E così lei rimane giorni e giorni nella capanna di tre metri per tre metri, sepolta dalla neve, sbattacchiata dalla tempesta, da sola nella tundra. A camminare quale che sia il tempo perché camminare si deve, anche nelle notte invernale, anche in piena bufera, perché così ha consigliato con tono paterno un uomo di una certa età incontrato sulla nave che la portava a Spitsbergen, nell'estremo Nord delle Svalbard.

Camminare si deve, e si deve anche mantenere alto l’umore con una bella dose di umorismo, che serve anche a combattere le ansie. Con questa ricetta, sommata all’abitudine di rassettare la capanna come fosse una casa in centro a Vienna, Christiane inizia il suo apprendistato a un mondo sempre più spoglio, al buio – che a quelle latitudini vuol dire 134 giorni senza mai vedere il sole –, alla solitudine totale, alle settimane di tempesta, alla carne di foca come unica fonte di vitamine, alle patate ghiacciate, alla stufa che non tira, alle volpi curiose, al pack che blocca il paesaggio, alla nebbia che tutto avvolge, al gelo che tutto gela.

Ne esce un libro – Una donna nella notte polare, ripubblicato da Keller editore a 50 anni dalla prima edizione in italiano – che non parla di imprese e sfide, ma di paure e incanti, di domande e pensieri, di bellezza bianca come il latte e quiete immensa come la notte artica. Un libro delicato e semplice, un resoconto di un anno che non è un diario d'avventure, ma più uno zibaldone di pensieri. Un libro dove in sostanza si dice che per trovare il suo equilibrio l’uomo ha bisogno della natura, di viverla e mettersi in relazione con lei. E non sono parole dettate dalla moda del momento, dalla voglia di fuga dall’ambiente urbano che sempre più si sente. Sono parole scritte quasi 90 anni fa, da una donna che si ritrova semplicemente a vivere nella notte polare.
INFORMAZIONI
Christiane Ritter, Una donna nella notte polare, Keller editore, pag. 298, 18 euro