Alle volte viaggiando si incontrano oggetti inaspettati in posti in cui non ci aspetteremmo di trovarli. Come un tavolo da biliardo con il suo panno verde nel bel mezzo del deserto o un pianoforte in una tenda nelle steppe mongole. La scrittrice inglese Sophy Roberts prende le mosse proprio da un pianoforte suonato da una giovane pianista mongola per iniziare la sua ricerca di antichi pianoforti in una zona del mondo che normalmente non si associa alla musica: la Siberia. La ragazza che si chiama Odgerel Sampilnorov suona divinamente utilizzando un moderno Yamaha. Ma che cosa potrebbe fare se suonasse su un piano storico, di quelli che ancora risuonano con il timbro del XIX secolo? Se lo chiede anche Sophy Roberts che decide di partire alla ricerca di un pianoforte da donare alla giovane artista. Da questa ricerca ne esce un libro di viaggio, Il suono perduto della Siberia (Mondadori, pag. 384, 22 €), che racconta la storia di come la musica classica e il pianoforte abbiano progressivamente invaso questa terra inospitale e drammatica. 
Nel 1774 Caterina la Grande sempre in cerca di novità “occidentali” ordinò un pianoforte inglese – allora grande novità tecnologica, e diede il via alla storia d’amore tra al Russia e questo strumento. A inizio del XIX secolo in ogni nobile dimora russa c’era un pianoforte che era entrato a far parte dell’educazione delle persone rispettate e rispettabili. Una vera “pianomania” che negli anni porterà alla nascita di virtuosi della tastiera come Anton e Nikolai Rubinstein e Sergei Rachmaninoff. Una mania che da San Pietroburgo e Mosca esonderà verso la Siberia, prima ai tempi degli Zar – che per ironia del destino subirono la stessa sorte e vennero a loro volta esiliati e uccisi oltre gli Urali – e poi del regime sovietico, che ne fece un immenso campo di detenzione. Una terra non di meno conquistata dai pianoforti che per strade tortuose arriveranno a suonare in luoghi dove non ci si immaginerebbe potesse arrivare la musica e soprattutto certi prestigiosi strumenti di fabbricazione tedesca, inglese o anche russa.
E di questi strumenti Roberts ricostruisce le peripezie, cercando di scoprire se ancora esista o meno un certo pianoforte suonato dagli ultimi Romanov nei giorni dell’esilio, o quello che suonava la pianista Vera Lotar-Shevchenko nella città segreta di Akademgorodok, cittadina siberiana a una ventina di chilometri da Novosibirsk dove il regime sovietico aveva concentrato le migliori menti per costruire una cittadella della scienza specializzata in materie allora considerate strategica come fisica nucleare, citologia e genetica. Perché il bello del libro di Sophie Roberts è che nei suoi viaggi di ricerca dimostra di avere una predilezione per le zone più estreme e remote di quest’area immensa, estrema e remota.
Così si imbarca in esplorazioni alla ricerca di pianoforti di fattura tedesca o inglese in zone che uno ha sentito solo giocando a Risiko, come la Kamchatka, e le zone che si affacciano sul mar di Okhotsk. O neanche ha bene idea dove stiano sulla mappa, come le isole Curili (un arco di isole nel Pacifico, l’estremo Oriente della Russia che arriva a toccare il Giappone, che infatti le ha invase a inizio Novecento e ancora le reclama); oppure la Kolyma, ovvero la terra dei peggiori Gulag di Stalin raggiungibile solo grazie a una autostrada che altro non è che una pista nella steppa o nel ghiaccio. O ancora l’isola di Sachalin: altrettanto estrema e periferica, il posto alla fine del mondo scelto come colonia penale dall’impero zarista raccontato da Anton Čechov in un crudo reportage. 
In tutti questi luoghi Roberts cerca i suoi strumenti e raschia nella memoria delle persone e negli archivi per raccontare la storia di come e quando certi pianoforti di fine ottocento siano arrivati a queste latitudini a rischiarare con le note di Lizst, Chopin o Beethoveen. Note che, si scopre, risuonavano anche nei gulag e nelle cittadine minerarie disperse in mezzo al ghiaccio. Perché i sovietici, tra i tanti difetti avevano anche qualche pregio, come quello di aver diffuso la cultura musicale in tutti gli avamposti dell’Unione, diffondendo strumenti a basso prezzo nelle scuole di musica che sorgevano ovunque. E in queste scuole spesso finivano arenati pianoforti di valore, arrivati decenni prima al seguito di uomini avventurosi in cerca di ricchezza, o di uomini ricchi e disgraziati, condannati all’esilio.
In tutto questo emerge in controluce il racconto della Siberia e delle sue genti, in un libro che francamente dice poco a chi cerca una storia della musica o sa tutto sull’industria dei pianoforti, ma che è una piacevole lettura per chi è affascinato da quelle terre ultime e da certi personaggi come quella donna con un broncio epocale che Roberts incontra a un certo punto e si domanda se quella non sia la faccia di una donna che non si ricorda di aver mai riso in vita sua. Di certo è quella di una donna che non ha mai sentito suonare un piano nelle steppe.