Ci sono scrittori tanto bravi con le parole di cui leggeresti con enorme soddisfazione anche la lista della spesa. Ogni epoca e ogni genere letterario ha i suoi campioni indiscussi – tre a caso, Emmanuel Carrère, Italo Calvino o Cesare Pavese, per stare ai gusti personali –, tanto profondi nel partorire osservazioni illuminanti e descrizioni coinvolgenti che sono capaci di prendere per mano il lettore e costringerlo a una lettura senza sosta, piacevole e quasi compulsiva. Nell’ambito non poi così vasto della letteratura di viaggio uno di questi è certo Patrick Leigh Fermor, per comodità spesso abbreviato in PLF.
Inglese, intrepido, incredibilmente colto, curioso fino all’inverosimile, Patrick Leigh Fermor era uno per cui la vita era una grande avventura e come tale andava vissuta e raccontata. E soprattutto era un grande amante della Grecia, Paese in cui decise di trasferirsi dopo averla vissuta intensamente durante la Seconda Guerra Mondiale in cui era infiltrato a sostegno della resistenza a Creta.
E di Grecia parla anche Rumelia (Adelphi, pag. 291, 20 €), un libro uscito per la prima volta nel 1966 ma tradotto in italiano solo oggi. Un volume dedicato alla parte meno vista e battuta della penisola ellenica, quella che va dal Bosforo all’Adriatico e dalla Macedo­nia al golfo di Corinto. Quella fatta di montagne e pastori, nomadi indefessi e monasteri abbarbicati sulla cima di ispide alture. Che è poi la Grecia che sir Fermor – divenuto famoso, almeno in Italia, per un libro sulla penisola del Mani, nel Peloponneso, dove aveva scelto di vivere – preferiva. 
Un libro che racconta una serie di viaggi nati «guidati dal caso», come amava dire. Ma poco conta che a guidarli sia stato il caso, ammesso che ci si voglia credere. Che parli degli ultimi nomadi della Tracia – i Sarakatsani –, o insegua un paio di scarpe appartenute a lord Byron, che passi una settimana nei monasteri delle meteore o si lanci in una appassionata invettiva contro il turismo che ha trasformato “isole piene di dignità e coste tranquille in inferni brulicanti”, leggere le parole di Patrick Leigh Fermor dà comunque sempre soddisfazione.
Soddisfazione figlia della sua eccelsa qualità di scrittura, un’abilità di descrivere il mondo che osserva con una precisione e un lirismo mai fine a se stesso, mai eccessivo o melenso, sempre preciso, evocativo, affascinante. E pace che in queste pagine si racconta di paesaggi che non sono più quelle e tradizione morte e sepolte da un pezzo, la bellezza delle pagine scritte di Fermor è pari a quella di un romanzo: l’attenzione ai dettagli, l’abilità con cui passa da una precisa descrizione architettonica a una lunga digressione sul carattere dei greci di queste zone, l’eterno velo di sapiente ironia con cui racconta le sue storie ne fanno una lettura incredibilmente piacevole.
Basta leggere il capitolo 4, A Nord del Golfo, in cui finisce in borghi allora – siamo negli anni Cinquanta – squallidi e svuotati, come Astakòs o Missolungi, in un viaggio tortuoso tra villaggi radi, anonimi e polverosi per farsi venire la voglia di leggere tutto quel che si trova in libreria di Fermor. Merito di uno stile che, viene da pensare, altro non è che lo specchio letterario del modo in cui ha vissuto la sua vita: intensa, piena, onnivora. Proprio come sono le sue pagine: ricche di digressioni, appassionatamente dettagliato senza mai stancare, straboccante di sapere ad ogni riga: che sia storia, arte, linguistica, religione, mito, geografia o etnografia.
Uno stile che è un oggettivo peccato non possa esser approfondito ulteriormente, perché questo è l’ultimo dei grandi libri di viaggio di Fermor che mancava in traduzione italiana. Il resto che rimane da assaggiare sono un paio di volumi di lettere e una raccolta di tre reportage dalla Ande. PLF è morto nel 2011, a 97 anni, ed era tutt’altro che uno scrittore prolifico: scriveva e riscriveva, emendava, aggiungeva, cercava la parola esatta che descrivesse quell’albero, quell’uccello, quel finimento del costume tradizionale. Si affidava alla sua prodigiosa memoria per ricostruire anche visivamente esperienze vissute decenni prima, come nel caso dei tre volumi che raccontano il suo viaggio dall’Inghilterra a Costantinopoli, quando non era che un diciottenne voglioso di avventure che decise di attraversare l’Europa a piedi. Libri che andrebbero letti, nella speranza che dai suoi bauli salti fuori ancora qualcosa. Fosse anche la lista della spesa.
Su Fermor, il suo viaggio in Grecia, nel Mani, e il suo rapporto con Bruce Chatwin abbiamo scritto in questo reportage.
Della sua trilogia che racconta il viaggio a piedi nell'Europa degli anni Trenta abbiamo parlato in questo articolo.