Quando viaggiare non è un’opzione praticabile per i motivi che tutti sappiamo ed è giusto fermarsi e stare in casa finché l’onda non sarà passata. E dalla poltrona del salotto, dalla sedia in balcone, dal comodo del proprio divano si può comunque continuare a muoversi con la mente mettendo in pratica quello che i britannici chiamano “armchair travel”, ovvero la lettura di libri di viaggio. Reportage che permettono una innocente evasione in compagnia di chi è partito per saziare la sua curiosità o lo spirito d’avventura ed è tornato per raccontarlo. Racconti di prima mano di mondi lontani e diversi, esperienze ricche di passione, empatia e divertimento spesso in zone periferiche che magari mai visiterete, ma che stuzzicano fantasia e voglia di scoprire. E poi, chi lo sa, non è detto che a emergenza finita, non si decida di partire con un libro sotto braccio per visitare i luoghi di cui si è letto in questi giorni…
Ecco la trentaduesima puntata.
Bello, bellissimo, coinvolgente: da leggere. Se le recensioni di libri fossero Haiku o poesie ermetiche, basterebbero poche parole per consigliare appassionatamente La polvere del mondo di Nicolas Bouvier. Leggetelo, nella nuova edizione Feltrinelli appena pubblicata, portatevelo in campagna, al mare, in montagna dove vi viene più comodo leggere e godrete di una lettura piacevole nella forma e nel contenuto. Bastasse questo però si scriverebbero fascette, o strilli, dove non serve argomentare alcunché scandendo nel terreno del marketing invece che in quello della sostanza. E sarebbe un peccato perché di sostanza La polvere del mondo ne ha d’avanzo.
Si tratta di un libro di viaggio degli anni Sessanta (la prima edizione in francese pubblicata a spese dell’autore è del 1963) che racconta di un’avventura lunga 18 mesi alla scoperta del Medio Oriente a bordo di una Topolino quotidianamente bisognosa di riparazioni e di qualche spinta. L’avventura in questione è un viaggio dalla Bosnia alle porte dell’India, seguendo rotte che negli anni successivi (il viaggio verso le Indie risale al 1953/54) saranno solcate da centinaia di giovani europei in cerca di sé stessi, dell’altrove e di qualche allucinazione tra Teheran, Kabul e il subcontinente.
A scriverlo uno svizzero che all’epoca aveva 24 anni e di nome fa Nicolas Bouvier, autore di quello che per comodità si potrebbe definire un classico, se non fosse che in Italia non ha avuto, almeno sino ad ora, la fortuna che meriterebbe, questo nonostante il testo fosse già stato tradotto anni fa da Diabasis editore. Fortuna che invece ha avuto nel mondo di lingua francese invece i viaggi e i libri di Bouvier - dal Giappone allo SriLanka, dell’Irlanda alla Scozia – son ben solidi negli scaffali. 
E perché mai La polvere del mondo meriterebbe tanta fortuna da assurgere addirittura allo status di classico della letteratura di viaggio? All’epoca Bouvier si mise in viaggio con l’amico Therry Vernet, aspirante pittore tanto quanto Bouvier era sognava di diventare scrittore. Decisi a mantenersi vedendo quadri e scrivendo reportage per i giornali locali delle città che incontreranno sulla strada i due si mettono in viaggio con la leggerezza dovuta all’età e la capacità di guardare, una profondità nello sguardo formata su grande sensibilità e solide letture. Ma soprattutto con una capacità di adattamento enorme e la ferma volontà di scoprire il mondo partendo dal basso, ovvero soggiornando nei peggiori hotel dei bazar o in case sfatte e prese a prestito tra Belgrado, Istanbul, Tabriz, Teheran, Quetta e Kabul, non tanto per posa, ma perché le finanze non glielo permettevano.
E il fatto di essere due squattrinati assetati di vita, senza limiti temporali al proprio viaggio se non quelli dettati dalle avversità atmosferiche e dalle rotture della loro automobile, gli consente di godere a fondo dei luoghi dove giocoforza si fermano per settimane o addirittura mesi. Permettendogli di fare una esperienza piena, densa, ricca della vita del vagabondo ben educato. Così una volta è l’inverno che li coglie a Tabriz, dove resteranno per mesi in una casetta spoglia e fredda nel quartiere armeno a sentiere storie, a registrare canti e a godere del lusso tempo. Un’altra è un guasto irreparabile al cambio, che li obbliga a sostare per settimane a Quetta, in Pakistan, cercando di sbarcare il lunario suonando standard europei in un bar in lento, muffoso, disfacimento. Insomma, una vita invidiabile per chi ha sempre aspirato a mollar tutto e fare il viaggio della vita.
Ma quello di Bouvier non è un diario di avventure giovanili interessanti che si legge come un romanzo di Jack Kerouac. È questo, certo, ma soprattutto è un libro in cui il racconto dei luoghi e delle persone è sopraffino per scelta delle parole, misura del racconto, capacità di pennellare le atmosfere senza mai eccedere nella descrizione barocca o nell’introspezione eccessiva. Un libro scritto «ravvivando le parole per dar loro colore», come diceva lui in una poesia. Un libro che ha un giusto, quasi sorprendente bilanciamento, tra avventura e riflessione, erudizione storica e leggerezza. Bouvier non fa il catalogo delle bellezze, né tinteggia paesaggi esotici come fosse un impressionista, piuttosto racconta la quotidianità di una avventura che all’epoca non era ancora una moda, ma era piuttosto un’impresa un poco folle. Il tutto messo insieme anni dopo, perché come racconta nel libro: gli appunti presi per mesi e mesi su fogli e quaderni, mettendosi a scrivere in improbabili tchaikane orientali (le sale da tè invase dal fumo dell’oppio che si incontrano ovunque a est di Istanbul) li ha persi, gettati nella pattumiera da un cameriere pakistano.
Ma forse è stato meglio così, perché dover ricostruite tutto a posteriori, con la sola forza della memoria e l'aiuto dei disegni di Vernet che illustrano il testo ha contribuito a sfrondare l’inutile e a restituire l’epica, trasformando quello che poteva essere l’ennesimo diario in un libro di letteratura. E contribuendo a costruire un libro bello, bellissimo, coinvolgente: da leggere.
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