Alle sei del mattino il più profondo dei silenzi regna sulle cime intorno al passo del Gran San Bernardo. Non c’è vento, non ci sono nuvole, non si sentono rumori d’auto e neanche rombi di moto. C’è qualche rondine che si esercita instancabile e silenziosa. Il laghetto che sta sul confine è uno specchio liscio che riflette le vette, l’albergo sul versante italiano con le sue pareti di pietra è quieto come è giusto che sia a quest’ora. Il confine è aperto, senza sbarre e senza code. Non più vigilato da anni, ormai è giusto un segno sbiadito sulla strada: un gabbiotto di cemento sbrecciato segna il lato italiano, una costruzione rifatta quello degli svizzeri, che a quanto ci pare comunque ancora tengono a questa convenzione tracciata dagli uomini per dividere le montagne. E mentre ammiri tutto questo appoggiato alle mura dell’Hospice du Grand St. Bernard ti viene da pensare che c’è gente che questo paesaggio a quest’ora del mattino lo guarda ogni giorno, estate e inverno, che ci sia la tormenta o un mirabile sereno. Sono i canonici di San Bernardo che da quasi mille anni (più o meno dal 1050) custodiscono queste alture solitarie e questa via di passaggio che si inerpica sulla cima del colle a 2.473 metri.
Oggi collega Valle d’Aosta e canton Vallese, Italia e Svizzera. Nei secoli ha unito regni e confederazioni, costituendo – fino all’avvento delle vie ferrate con relative gallerie, e della motorizzazione di massa – una delle più importanti vie di accesso all’Italia dall’Europa occidentale. Di qui infatti passava (e passa) la Via Francigena, il cammino che per convenzione si suole dire unisse Canterbury con Roma, ma che in epoca medievale era semplicemente la strada migliore, ancorché faticosa e rischiosa, per valicare le Alpi in questo settore occidentale della catena montuosa. Talmente importante e obbligata che di qui passò Napoleone alla testa di 49.128 armati, pronti a conquistare l’Italia dopo aver preso la Francia. C’è una targa che lo ricorda, su un muro dell’ospizio, una costruzione severa che sembra un castelletto, alto e massiccio, posto a guardia del transito esattamente nel punto più alto del valico, dove si scollina e i ciclisti che salgono da Martigny dopo 40 chilometri di rampe prendono finalmente fiato.
Sembrerà pure un castello, eppure non c’è la chiave e non c’è chiavistello all’Hospice du Grand St. Bernard. L’ospizio non chiude mai, da mille anni. E ne fa un vanto, il priore Jean-Michel Lonfat, mentre ti racconta che è da mille anni che proprio lì suoi confratelli si dedicano all’accoglienza. «In mille anni la strada è sempre stata aperta, che ci fosse guerra o che ci fosse tempesta. E invece la pandemia l’ha chiusa» sospira in un francese che prova a sporcare con qualche parola d’italiano. Qualcosa di impensabile anche se si misura la vita in secoli, come sono abituati a fare i canonici di quassù. «Ma la nostra porta è sempre rimasta aperta, perché questa è la nostra missione: accogliere, assistere e proteggere i viaggiatori, senza chiedere nulla. Men che meno un documento» spiega Lonfat. «Questa è la casa abitata stabilmente più alta delle Alpi» sottolinea con orgoglio. Tutto l’anno si fermano sei canonici e un’oblata, l’unica donna della congregazione. E in estate sono aiutati da un paio di dipendenti in cucina, ma anche da un gruppo di volontari che si dà il cambio nell’accoglienza degli ospiti e vive in questa dimensione particolare, sospesa, scandita dai ritmi dei vespri e della compieta, delle messe e dei tre momenti dedicati al vitto. «Seguiamo la regola benedettina dell’ora et labora, solo che il nostro lavoro è particolare per una congregazione religiosa: l’accoglienza. Siamo gli unici nel panorama cattolico con questa specificità» prosegue. Unici e radicati tra queste montagne, se è vero che della trentina di canonici la maggioranza viene dal Vallese. «Ma adesso abbiamo anche un cinese, qualche tedesco e dei francesi. Siamo un ordine piccolo, antico e particolare, oltre a questo ospizio gestiamo quello del passo del Sempione e alcune parrocchie tra il Vallese e la Valle d’Aosta» racconta Lonfat prima di scappare per le orazioni delle 18.
E che sia una casa, nel senso di calorosa e accogliente, e non un semplice albergo si capisce appena passi qualche ora all’interno di queste mura spesse diverse metri. Basta sentire l’odor di minestra che si diffonde sul far della sera, mentre gli ospiti che pernotteranno ai piani alti si riposano nella sala comune, si fanno la doccia, o aspettano i rintocchi della campanella che chiama alle orazioni e poi alla messe. Fuori, visto dalla finestrelle strette il passo lentamente riacquista la sua quiete millenaria. Nella sua breve estate – «qui abbiamo solo due stagioni: un lungo inverno e una piccola estate» – il Gran San Bernardo vive di una vita quasi frenetica dalle 9 alle 18, quando è letteralmente invaso dai turisti di giornata che salgono quassù senza dover andar da nessuna parte, solo per dire di esserci stati, spesso attratti dal mito dei cani da valanga.
Già, i cani del passo che fanno impazzire i bambini e salvano i viandanti. Anni fa si temeva stessero scomparendo, o che almeno chiudesse l’allevamento secolare. «Era molto difficile per noi stare al passo con i regolamenti per fare un canile in regola: sarebbe servito un grande investimento di soldi e personale. E noi siamo sempre meno, ormai solo una trentina» spiega il priore. Ma i cani ci sono ancora, come testimoniano i peluche venduti a caro prezzo negli immancabili negozi di souvenir che si trovano in cima, qui come in ogni passo d’Europa. Solo che dal 2005 il canile che gestito dai confratelli è stato rilevato dalla Fondation Barry di Martigny, che in estate ne porta in cima una dozzina in modo che i bambini non rimangano delusi e possano vedere questi paciosi bestioni, fotografarsi con loro e, perché no, fare anche una passeggiata portandoli a spasso. Certo, se parli con qualcuno dei canonici ti spiega che i cani San Bernardo non sono stati scelti perché particolarmente abili nei soccorsi, ma perché belli grossi. E dunque con le loro zampe e il loro peso erano ottimi per battere la neve quando i marronnier – gli uomini della valle che accompagnavo i viaggiatori – dovevano partire per andare a salvare qualcuno che si era perso nella tormenta. E pace se il mito del cane salvatore con la sua botticella di liquore è un mito, piace lo stesso.
Come piace soggiornare tra queste mura dove tutto è costruito per l’accoglienza e per la condivisione. Anche se ci sono anche camere doppie, per famiglie. E da qualche anno anche un hotel a tre stelle che occupa l’edificio oltre le strada, unito al corpo centrale da un passaggio coperto e soprelevato. È dato in gestione a una coppia, ma è controllato dai canonici. «Abbiamo capito negli anni che è necessario adeguarsi ai tempi, anche in questo. Qui l’accoglienza è stata sempre spartana, conventuale nel vero senso della parola, di lì c’è un ristorante e delle belle camere». E qui invece fino al 1964 non c’era neanche la luce elettrica. «Poi si è deciso di sfruttare l’elettricità del traforo e le cose sono cambiate» racconta il priore. «Abbiamo riflettuto: il traforo da un lato modificava il senso della nostra missione, ma dall’altro ci dava la possibilità di vivere in modo diverso la montagna, più riflessivo e adatto alla nostra ricerca spirituale. Così abbiamo deciso di aprirci non solo ai viandanti, ma anche ai turisti, a chiunque volesse condividere con noi questa filosofia e questo luogo» spiega il priore. E il cambiamento è stato a suo modo epocale. «Una volta poteva sostare solo chi fosse arrivato a piedi, o in bicicletta, non si accoglieva salvo rari casi chi arrivava in auto, che doveva dormire nell’albergo di fronte. Ma oggi non facciamo domande sul mezzo di trasporto, come non facciamo sulla nazionalità o sulla credenza religiosa: l’accoglienza è per tutti, sempre» aggiunge.
Però chi sceglie di fermarsi nelle camerate dell’Hospice – che ha anche stanze per famiglie da 2 o 4 letti – gode di un’atmosfera particolare. Anche se la filosofia del luogo si capisce meglio se si dorme in camerata, condividendo il tepore del calorifero sempre acceso anche in piena estate, il grande lavandino comune che sembra quello delle scuole elementari, le docce a tempo per risparmiare l’acqua, e soprattutto le grandi tavolate che emanano una letizia da comunione. Ai tavoli si trova di tutto: dai pellegrini che transitano sulla Francigena, stanchi e bruciati dal sole, ma vogliosi di parlare ai gruppi di trekker polacchi impegnati in un tour d’alta quota che li porterà sul Bianco, fino a un terzetto di motociclisti di Lione con baffi a manubrio e tatuaggi. Sembrerebbero fuori posto in questo contesto religioso, almeno per come sono vestiti, bardati di nero e con i teschi sulle giacche. Hanno scelto il weekend per fare un giro circolare e testare le loro Harley in queste alture e l’Hospice era la sistemazione più economica quassù. Stessa scelta che ha fatto fermare una famiglia toscana di stanza in Belgio, che ha preso il viaggio verso casa come parte della vacanza. Ma per tutti c’è posto, a nessuno si chiede nulla se non rispettare la quiete e il prossimo. E così la porta rimane aperta anche la notte, se qualcuno non riesce a dormire per via dell’altitudine può scendere, sostare nella bella chiesa affrescata se crede sia necessario, oppure uscire a rimirar le stelle. Che a quest’altezza, in estate, sono un firmamento che ti fa venir voglia di continuare a viaggiare. Per vedere se altrove, oltre il passo, sono le stesse o sono diverse.
INFORMAZIONI
- il sito dell'Ospizio del Gran San Bernardo, gsbernard.com
- il sito per la informazioni turistiche del Canton Vallese, valais.ch