Ogni tanto la curiosità viene: ma come sarà il mondo alla fine del mondo? Che volto avrà il paesaggio dell'estremità meridionale della Patagonia ? Come sono i canali battuti dal vento che portano verso Capo Horn, e i ghiacciai che affondano in mare, le isole tappezzate di pinguini e leoni marini? E i silenzi percorsi dal vento che si incalana tra le montagne?

Per vederlo (con gli occhi) ci sono davvero poche possibilità: o si è intrepidi navigatori atlantici, oppure ci si imbarca su una crociera Australis (australis.com) e si circumnaviga Capo Horn, attraversando la parte estrema della Patagonia argentina e cilena, nella sua parte più vergine e meno conosciuta, quella che battono le spedizioni Australis.

Oppure, ancora, ma solo per pochi giorni (dal 3 al 7 di ottobre), si può vedere la mostra Uno sguardo verso l'estremo Sud che si tiene alla galleria d'arte Il vicolo di Milano (via Maroncelli 2), in cui sette fotografi raccontano la loro Patagonia estrema. In alternativa, per fantasticare si può leggere il reportage dalla fine del mondo che, dopo aver navigato con Australis, abbiamo pubblicato su Touring nel dicembre 2015. Eccolo, buona lettura!
IL VIAGGIO
A queste latitudini il silenzio della notte instilla quella stessa inquietudine che devono provare gli alberi prima dell’arrivo del vento. Un silenzio che popola l’oscurità densa, interrotta dal riflesso sull’acqua delle luci della motonave Via Australis che si inoltra tra i fiordi della Terra del Fuoco, evitando ghiacci solitari, salutando gabbiani stanchi. Non ci sono stelle, solo nuvole. Sarebbe estate qui sotto, all’altro capo del mondo, ma non se ne è accorto nessuno. L’aria è fredda, la sigaretta del marinaio in cerca di un attimo di relax si consuma in fretta, colpa del vento o della voglia di tornare sottocoperta. Così in coperta si rimane soli a cercare qualcosa che non appare. Anche perché c’è davvero poco che possa apparire all’orizzonte, di notte. Passate le luci di Puerto Navarino, dove da una pilotina salgono gli eleganti ufficiali della dogana cilena in divisa blu a timbrare i passaporti in una strana frontiera volante, a livello di presenza umana c’è il nulla. Non un faro, non un villaggio, neanche una nave che incroci in senso inverso. Solo quel silenzio.
Sul far della sera siamo partiti da Ushuaia, ultimo luogo abitato su cui sventola il pallido sole della bandiera argentina. A bordo della Via Australis si fa rotta verso Capo Horn, la fine – quella vera – del mondo. Al porto, sull’unico grande molo cui sono ancorate fregate della marina di Buenos Aires, imponenti cargo e navi crociera, c’era movimento. Gli scaricatori caricavano container di strumenti su una nave panamense dipinta di marrone e diretta in Antartide. A bordo ricercatori e turisti. I ricercatori si fermeranno in qualche base scientifica per i brevi mesi dell’estate antartica; i turisti vanno e vengono, come le nuvole. Vista dal ponte, Ushuaia con le sue case di legno colorate sistemate su balze neanche fosse San Francisco, fa l’impressione di un teatro di provincia, di quelli ottocenteschi, tondi e raccolti. Tu sei sul palco e osservi questo posto strano che si srotola davanti. Come Samarcanda o Timbuctu appartiene più alla sfera del mito che alla realtà: Ushuaia, l’ultima città. Dietro montagne innevate, sulla destra lungo la baia il profilo della cordigliera di Darwin. Sembra un resort alpino, è un posto di mare. E che mare. Siamo in quel punto della mappa del Sudamerica dove la terra finisce e rimane solo acqua. Il polo Sud dista quattromila chilometri.

Da un lato l’Atlantico, dall’altro il Pacifico, davanti il canale di Beagle; in mezzo onde, vento e una nave che definire da crociera è fuorviante. Dipinta di bianco e blu scuro, la Via Australis è una piccola e moderna nave varata a Valparaiso (136 passeggeri, una trentina di uomini di equipaggio), assai comoda e a suo modo piacevolmente spartana. Se cercate l’animazione a bordo, le cene di gala e gli spettacolini da casinò, scendete. Se avete sempre avuto una certa attrazione per Piero Angela, i documentari naturalistici e le belle storie di mare e d’avventura da consumarsi al bancone del bar, accomodatevi: gli alcolici sono compresi nel prezzo, tutti. E spegnete il telefono: non c’è rete, e non c’è neanche wifi, finalmente.

IN NAVIGAZIONE NELL'ESTREMO SUD
Per cinque giorni e quattro notti si naviga da Ushuaia a Punta Arenas, Cile. Mettendo piede a Capo Horn, se il tempo lo permette – tutto dipende dai capricci del mare e del vento, solo un terzo delle spedizioni toccano terra –, e girovagando tra ghiacciai dai nomi italiani (Garibaldi, Marinelli, Italia) che piombano in mare, fiordi scavati dal vento e dalle onde, qualche resto di presenza umana che ricorda i tempi eroici e oramai lontani in cui qualcuno cercava di colonizzare la Terra del Fuoco. Come se con quel nome, e con questo clima, fosse affare semplice. Se guardi il tragitto su una mappa assomiglia a un gomitolo sfilacciato portato a spasso da un gatto che non si cura di incasinare tutto. Se lo contempli dalla finestra ampia della tua cabina, la numero 407 a un passo dalla sala di comando, sembra una presentazione in cinemascope. Titolo? Vieni a scoprire quanto è bello il mondo. Già, perché «ci sono paesaggi, come certi istanti della vita, che non si possono cancellare mai dalla mente». Lo disse una volta Francisco Coloane, scrittore cileno cantore di queste terre ultime, uno che Moby Dick di Melville doveva averlo imparato a memoria. E mentre lo diceva per forza di cose aveva in mente questi luoghi, non ci sono altre possibilità.

Troppo imponente e sovrabbondante è la bellezza della natura in cui ci si insinua, navigando con quella stessa attenzione e apparente leggerezza che si avrebbe entrando in una cristalleria. «Questi sono mari pericolosi» dice il comandante dopo cena, bevendo un pisco sour nello Sky lounge a poppa, sull’ultimo ponte. Perché va bene il ruolo e le stellette, ma prima di essere comandante è cileno. E un buon cileno viaggiatore beve almeno un pisco al giorno: tre parti di acquavite, una di succo di limone, ghiaccio in cubetti e zucchero. Poi che siano mari pericolosi lo racconta la storia. Al museo Maritimo del Presidio di Ushuaia, un carcere umido trasformato in testimone della fine del mondo, una grande mappa segna con una croce tutti i naufragi in queste acque. Quelli di cui si ha notizia sono oltre 800. Gli altri, chissà. Del resto qui vale esattamente quel che dicono i montanari dell’alta montagna: «il tempo cambia più rapido di un batter d’ali».

APPRODO A CAPO HORN
La riprova si ha il mattino del secondo giorno, quando poco dopo l’alba si dovrebbe scendere a Capo Horn. Il sole, questo sconosciuto, buca le nuvole mentre l’equipaggio cala in mare gli zodiac neri con cui arrivare a terra. Le alte falesie del Capo stanno lì, sottovento e con la luce giusta per essere fotografate, come si fossero preparate per una festa di nozze. Ma basta un niente e tutto cambia, il vento gira, il sole scompare, la neve inzuppa tutto e tutti. Due gommoni hanno già toccato terra da ovest, una passerella di legno che chiamare molo è un’iperbole costituisce l’unico approdo possibile. Altri due zodiac sono in acqua. Che fare? Indietro non si torna, non ora con tutta questa gente in mare o sugli scalini di legno che portano in cima all’isolotto. Il tempo cambierà: anche se il passaggio di Drake – che separa Capo Horn dalle prime terre emerse dell’Antartide, 815 chilometri più a Sud – è davvero il mare più burrascoso del pianeta. E in effetti cambia giusto in tempo per permettere a tutti di meritarsi il certificato di capehorner turistici: quelli che sono scesi a terra, non quelli che l’hanno doppiato per lavoro, quelli sì che sono veri eroi.

I passeggeri della Via Australis hanno comunque stretto la mano al capitano Andrés Valenzuela e alla sua famiglia: una moglie, un figlio, un cane, Melchor. Per 12 mesi sono gli unici abitanti di questa terra inospitale. Lui, ufficiale dell’Armada de Chile, controlla che il faro funzioni, saluta i turisti che ogni tanto ce la fanno ad attraccare, passeggia fino al monumento al marinaio sconosciuto per le rilevazioni meteorologiche quotidiane, tiene un diario del suo ruolo di Alcalde de Mar al Cabo de Horno (letteralmente sindaco di Capo Horn) e con orgoglio issa ogni giorno la bandiera bianca, rossa e blu del Cile. Il figlio, Matías, segue lezioni per corrispondenza, ascolta partite alla radio («il Colo-Colo, cosa ha fatto il Colo-Colo?») mentre la moglie Paula tiene casa, inforna pane e vive questa strana esperienza: abitare un anno alla fine del mondo.

Lasciato capo Horn in fretta e furia, perché il tempo cambia rapido e inizia nuovamente a nevicare, si inverte la rotta verso le acque oggi calme del canale di Beagle. Alle spalle il cielo diventa nero nero, come in quei paesaggi terribili dipinti dai vedutisti romantici. Dentro la nave i passeggeri solidarizzano in uno strano melting pot che unisce cileni e brasiliani in funzione anti-Argentina (il divertimento preferito di tutti pare sia raccontare barzellette cattive sugli argentini che si sentono più europei degli altri sudamericani); un nutrito gruppo di giovani svizzeri e tedeschi; una famiglia di francesi, la solita compagine di attempati americani che fanno un fantastico giro dell’emisfero Sud in due mesi; tre italiani, due russi equivoci e una signora polacca dai capelli vaporosi e l’inglese zoppicante. Deve essere convinta di essere la prima polacca e mettere piede su queste terre: in ogni dove si fa fotografare con la bandierina bianca e rossa della Polonia, che poi pianta a perenne memoria della sua impresa.

Più che una crociera come la intendiamo oggi questo è un viaggio di esplorazione: le giornate sono scandite da conferenze sulla geografia della Terra del Fuoco, approfondimenti sulla fauna antartica, chiacchierate sulla storia della conquista europea di queste terre e l’evoluzione dei ghiacciai. Chiacchierate in cui ti raccontano anche di padre Alberto Maria De Agostini, missionario salesiano e grande esploratore di questi luoghi estremi durante tutto il Novecento. A bordo le conferenze avrebbe potuto tenerle tutte lui, che era pastore di anime e scalatore, scrittore, regista e giornalista (scrisse per le riviste del Touring). E avrebbe potuto guidare anche le altre escursioni che mattina e sera mettono in fermento equipaggio e passeggeri. Del resto il parco naturale che più volte si incrocia durante la navigazione porta il suo nome: Parque nacional Alberto De Agostini.

E molti dei ghiacchiai che si avvistano furono per la prima volta scalati o esplorati da lui, come il ghiacciaio Marinelli e tante vette della cordigliera di Darwin. Ed era forse ancora abitata quando la frequentava lui la baia di Wulaia, sull’isola di Navarino, dove si scende per visitare gli insediamenti degli Yaghan, una delle tribù fueghine, i nativi che dall’epoca dei primi contatti con Magellano in poi vennero piano piano sterminati. E De Agostini era entrato anche nel Seno Chico, un fiordo laterale del canale di Beagle dove con lo zodiac si sfidano i tre gradi di temperatura e il nevischio leggero avvicinandosi fin quasi a lambire i ghiacciai Piloto e Nena: due pareti di neve compatte alte 40 metri che mettono in scena tutte le sfumature del bianco. Si scende ancora a terra per camminare lungo una spiaggia stretta fin sotto il ghiacciaio Águila. Ci si arrampica nella foresta per vedere da una posizione migliore il maestoso ghiacciaio Pia: in alcuni punti ha un fronte di oltre trecento metri ed è tanto azzurro da non sembrare vero. Non fosse che invece è un corpo assai vivo e nel giro di qualche minuto una piccola parte del suo fronte si frantuma, con un rumore che sbaraglia il silenzio quasi irreale di queste terre.

ARRIVO A PUNTA ARENAS
Non c’è silenzio invece sull’isola Magdalena,
nel cuore dello stretto di Magellano, a metà strada tra la Patagonia e la Terra del Fuoco, dove si attracca l’ultimo giorno. Qui vive un’immensa colonia di pinguini di Magellano, oltre 120mila: a gruppi o da soli ciarlano, ancheggiano, si gettano in mare con fare goffo e custodiscono nidi che sono buche nella terra dove altri pinguini aspettano di venire al mondo. Quello stesso spicchio di mondo sferzato dal vento dove sorge Punta Arenas, capitale della regione di Magallanes e dell’Antartico cileno, porto di sbarco della Via Australis. Qui il silenzio è un po’ meno silenzio, interrotto dalla musica che esce dalle macchine dei ragazzi che fanno il giro eterno delle quattro vie che compongono il centro. L’atmosfera è da pionieri nel Far West: lasci la zona del porto e ti inoltri in una periferia sconfinata fatta di case in legno che son baracche e hanno pareti di lamiera colorata staccate dal vento; intorno gli alberi hanno fronde che sembrano intagliate dallo stesso parrucchiere che scolpisce le chiome dei calciatori di oggi. L’orizzonte è largo, l’aria leggera, d’alta montagna. Nuvole basse e sfilacciate si perdono ancor più a Sud, mentre al porto navi della Marina brasiliana fanno rotta verso l’Antartide e nel canale di Magellano i pezzi di iceberg stanno a mollo nell’acqua fredda, come cubetti di ghiaccio del pisco sour. Per essere la fine del mondo non è per nulla male.