Paolo Cognetti ha raccontato atmosfere, luoghi, persone della città dove è nato e cresciuto negli otto Percorsi d’autore che aprono la nuova Guida Verde Touring “Milano". I suoi lettori troveranno nelle visioni urbane dello scrittore la stessa nitidezza, la stessa presa emotiva dei fondali alpini coprotagonisti in Le otto montagne, Premio Strega e bestseller mondiale (e presto anche un film), o degli spazi himalayani di Senza mai arrivare in cima. Il 26 ottobre esce il suo nuovo romanzo, La felicità del lupo, pubblicato come i due precedenti da Einaudi.
Qui vogliamo proporvi uno dei brani scritti da Cognetti per la nuova edizione della Guida Verde Milano, di cui trovate la presentazione completa sulla nostra news dedicata. 

UNA CITTÀ DALLA BELLEZZA PERDUTA
Per noi che ci siamo cresciuti verso la fine del Novecento, Milano era una città dalla bellezza perduta. Doveva esser bella, una volta: lo scriveva Stendhal, lo scriveva Hemingway, una città colta ed elegante che poteva passare senza battere ciglio da Napoleone a Francesco Giuseppe, così poco italiana con la sua cattedrale gotica, la galleria liberty, il teatro d’opera e la borsa degli affari delle grandi capitali del mondo. Simbolo della bellezza perduta erano i navigli: la cui ideazione, ci raccontavano, risaliva a Leonardo da Vinci, che aveva fatto di Milano una città di canali, un porto fluviale dove un fiume non c’era, e nell’acqua la sua ricchezza si era specchiata per secoli.
Milano zucchero e catrame
Noi quella città non l’avevamo vista perché di mezzo c’era stato il Novecento. I bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale avevano fatto un grave danno alla memoria e un bel favore all’edilizia: subito dopo, Milano aveva ammucchiato le macerie da una parte (la montagnetta di San Siro è un monumento a quella città distrutta) e si era data alla ricostruzione. Solo che adesso non servivano più canali, teatri, gallerie, servivano fabbriche, case per gli operai, interi quartieri economici e pronti in fretta, bisognava fondare la nuova capitale industriale del paese e dare un tetto alla gran folla di lavoratori che stava attirando su di sé. Ecco la città in cui eravamo nati noi, spesso figli di quei nuovi arrivati.
Quest’altra Milano non aveva più Stendhal a cantare di lei ma altri bravi scrittori come Testori, Buzzati, Bianciardi, Scerbanenco: raccontavano di una città fredda e dura, ancora così poco italiana, sì, ma perché in Italia ci si gode la vita, a Milano si lavora e si muore. In Italia ci sono il cielo, il vento, le nuvole, le piazze e i tavolini all’aperto, a Milano c’è la nebbia o è già buio, quando suona la sirena della fabbrica. In Italia i ragazzini giocano per strada e le madri li chiamano dalla finestra, noi invece crescevamo dentro casa perché Milano, fuori, era pericolosa, meglio allevarci davanti alla televisione.
Così, per cominciare a voler bene a Milano è stato necessario imparare a superare la sua ostilità. È successo nell’età in cui eravamo finalmente liberi di esplorarla da soli. La Vecchia Milano ci attirava molto verso i vent’anni: i due navigli superstiti, la darsena, i ponticelli di ferro e il Vicolo dei Lavandai, Brera e il Ticinese. Simbolo di quella Milano lì erano i tram coi sedili di legno, il pavé un po’ sconnesso di certi viali, le case di ringhiera con i panni stesi. O forse la casa di via Santa Marta, a due passi dal Duomo, che ancora portava i segni dei bombardamenti: i muri sventrati rivelavano gli interni, le tappezzerie slabbrate, i mattoni nudi e crudi.
 
Milano / foto Getty Images
Luoghi, storie, persone: una mappa interiore
Certo, tra amici il discorso preferito era andarsene da Milanouna specie di genere letterario, parliamo di ragazze o di andarsene da Milano? – intanto, però, piano piano scoprivamo dei pezzi di città che prima non conoscevamo. A volte luoghi, a volte storie. Ma soprattutto persone. Le persone ci raccontavano storie che ci aprivano le porte di luoghi, o che li mettevano sotto una nuova luce. Una certa strada dove qualcosa era successo. Un edificio che custodiva i ricordi di qualcuno. Una targa in mezzo al traffico, un nome, due date. I ricordi di chi aveva vissuto a Milano prima di noi avevano spesso a che fare con la lotta: normale per una città che in poco più di trent’anni aveva visto l’occupazione e la Resistenza, l’immigrazione di massa e la nascita di una nuova classe operaia, i movimenti sindacali e studenteschi, il terrorismo e l’eroina.
Capivamo che la nostra era una città combattuta e piena di ferite, per niente fredda come sembrava. C’era stata molta passione in circolo nelle sue strade. E intuivamo che la sua bellezza, quella non perduta, era una bellezza nascosta, sia perché dovevi andare a cercarla dove nessuno si aspettava che fosse, sia perché non era semplice da riconoscere. Come tutto, a Milano, richiedeva un certo lavoro. Era un lavoro sullo sguardo, un imparare a guardarla con gli occhi giusti, quello che stavamo appena cominciando a fare.
Ma intanto il Novecento era agli sgoccioli e, giusto per non affezionarsi a nulla, Milano si mise a demolire e ricostruire un’altra volta. Questa volta dismetteva le fabbriche e diventava città della moda, del design, della pubblicità, della televisione. La transizione sembrava funzionare – Milano negli anni Ottanta era una festa mobile – ma era impossibile non guardare con sospetto questa città che si votava all’apparenza, all’arte di impacchettare e vendere, questo falò delle vanità. Qualche pubblicitario inventò uno slogan memorabile, ‘questa Milano da bere’, senza accorgersi che, volendo celebrarla, la rivelava per quel che poco era: solo un oggetto di consumo. Questa nuova città attirava ancora gente, però adesso chi ci veniva non cercava tanto casa e lavoro, quanto un invito alla festa e la sua fetta di fortuna. Milano da stappare, da versare, da spremere fino all’ultima goccia, e infatti, quando la bottiglia fu finita, non restò un granché di quell’epoca, se non forse un altro luogo simbolo, il Quadrilatero della Moda, che è il suo quartiere a luci rosse. Gli scandali politici e poi la crisi economica d’inizio millennio la colpirono in modo particolarmente duro, e di certo meritato. Peccato per noi che a quel punto eravamo appena diventati adulti e in questa città cercavamo di trovare la nostra strada.
 
Milano, Palazzo Carminati negli anni 90 foto wikipedia
Essere un vero milanese
Chi non era andato via – di solito per un altro paese, dove va chi è cresciuto a Milano quando se ne va da qui – cominciò a peregrinare per case in affitto e in condivisione, come tutti. Fu inevitabilmente un giro delle periferie. Ma scoprimmo presto che la periferia della nostra città, in quegli anni di crisi, era di gran lunga la sua parte più vivace. Merito delle nuove migrazioni: non più i siciliani o i pugliesi o i veneti della nostra infanzia ma gli egiziani, gli indiani, i peruviani, i cinesi. Via Padova, che parte da Piazzale Loreto verso le estremità del mondo conosciuto, era diventata il posto più cosmopolita di Milano. Si andava lì, o nella Piccola Africa di Porta Venezia, o nella Chinatown di via Paolo Sarpi per sentirsi a Londra o a New York, e senza soldi per mangiare e per bere si battevano le bocciofile, le cooperative, le trattorie.
Ah, le trattorie della periferia di Milano! Le trattorie toscane, pugliesi, siciliane di Lambrate, di Baggio, di Niguarda, di San Siro, sono ancora lì per chi le vuole trovare – l’unica cosa in cui Milano sembra Italia, con i mezzi litri di rosso e i cestini del pane. Spuntavano nuovi epicentri, in questa città della crisi, quartieri popolari che fermentavano di musica, arte, libri, e certo anche di alcol e fumo: l’Isola soprattutto, di cui pochi di noi avevano sentito parlare prima. Bizzarro e altamente simbolico che quello fosse anche il quartiere in cui si progettava la rinascita di Milano: era già rinato da solo, ma nella nostra città le rinascite spontanee non sono mai gradite, meglio affidarle ad architetti e imprese edili. Così noi ora non riusciremo mai a guardare il Bosco Verticale o piazza Gae Aulenti con gioia, perché ci ricordiamo del Deposito Bulk, della Stecca degli Artigiani, di Pergola e Garigliano, dei posti che c’erano prima e di quanto ci siamo battuti per difenderli dalle ruspe. Ecco, entravamo nell’età in cui avevamo anche noi le nostre nostalgie, le nostre lotte vane e i nostri ruderi – l’età in cui, come scrive Colson Whitehead di New York, «quello che c’era prima è più reale di quello che c’è ora». Sei un vero milanese quando hai anche tu la tua Milano Perduta, per brutta che fosse.
Educati così, oggi ci meravigliamo che a Milano arrivino dei turisti, attirati dalle sue vetrine ma anche dalle sue bellezze. Una vacanza a Milano? Qualche anno fa sarebbe suonata come una barzelletta. E allo stesso tempo, nell’epoca in cui l’orizzonte urbano era fitto di gru e uno dopo l’altro i grattacieli ne ridisegnavano la forma, metà arrabbiati e metà stupefatti con il naso in su, increduli davanti a questo ennesimo Rinascimento Milanese, abbiamo anche capito che l’anima di una città non viene demolita dalle ruspe, si sposta da un’altra parte. Là si nasconde e bisogna andare a cercarla, se la si vuole ritrovare. O forse lo si lascia fare ai giovani, che se la vedano loro con questa città difficile, e si comincia a fare come i milanesi adulti che a Milano ci vivono dal lunedì al venerdì, e appena usciti dall’ufficio partono per la montagna.
Sei un vero milanese quando parti da Milano appena puoi, ne parli male in ogni occasione e le vuoi bene di nascosto. Di nascosto, quando siete soli, perfino la ringrazi per averti messo al mondo così. E le vuoi bene nel suo stesso modo scorbutico, non come ci si vuole bene in Italia, dove ci si bacia e ci si abbraccia, ma come ci si vuole bene nei paesi freddi, dove incrociandosi ci si saluta con un cenno del mento. Ciao, Milano. Sarà ancora così che la saluteremo quando un giorno finalmente le diremo addio.
 
*I testi di Paolo Cognetti sono pubblicati in accordo con MalaTesta Lit. Ag.
MIlano, le guglie dalla terrazza del Duomo / foto Getty Images
 
AQUISTA LA GUIDA VERDE MILANO
La Guida Verde Milano è disponibile sul nostro Store digitale, nei Punti Touring e in tutte le librerie.