Una buona volta bisognerà pur capire come mai Norvegia, Danimarca e Svezia ormai da anni siano alternativamente in testa alle classifiche mondiali della felicità. Certo, il benessere diffuso c’entra, come la disoccupazione ai minimi termini e la bellezza dell’ambiente naturale. Così come c’entra di sicuro lo Stato sociale pervasivo ed efficiente, figlio dell’etica protestante.

Ma tutte quelle cose che si dicevano una volta: il clima freddo, la carenza di luce solare, le tasse altissime, il tasso di suicidi che va a braccetto con il tasso d’alcoolismo, tutte queste cose che ogni italiano tirava in ballo ogni volta che qualcuno parlava dell’Happy Life scandinavo non avranno anche loro un loro peso nell’equilibrio della bilancia della gioia? E che ne è di quella dolce e disperata malinconia alla Kierkegaard; di quelle velate, romantiche tristezze di Ibsen e dell’ossessione per la morte di Munch? Possibile che tutto sia improvvisamente diventato "Hygge", ovvero quel modo di prendere la vita assai peculiare (un benessere leggero, autentico, misurato che si basa sulle piccole, semplici cose dell’esistenza) che sembra essere diventato la quintessenza della vita dei danesi allo stesso modo della saudade dei portoghesi?

Insomma quello della Scandinavia sembra essere uno strano mistero: è davvero il posto migliore dove vivere o è un falso mito, perché in realtà sono terre meditabonde per persone solitarie? Certo la Scandinavia in questi anni gode di buona stampa – un po’ come l’Italia ai tempi del Grand Tour – e un invidiabile successo turistico. Merito della musica orecchiabile degli Abba e dell’onnipresente Ikea, dei milioni di copie dei romanzi gialli alla svedese, della cucina e del design danese, della moda funzionale, semplice eppure assai “alla moda”, della musica islandese e della fascinazione per i paesaggi del grande Nord.
Ma a che cosa si deve tutto questo successo? È quello che prova a spiegare e raccontare lo scrittore britannico Robert Ferguson ne L’anima del Nord (Edt, pag. 508, 28 €) un libro in cui lui, inglese trapiantato in Norvegia ben prima che diventasse un Paese ricchissimo e desiderabile, va alla ricerca dello spirito scandinavo. Lo fa mischiando racconti personali e ricerca storica, approfondimento e leggerezza, viaggio ed erudizione: in un mix riuscito, piacevole e godibile come sono piacevoli e godibili i libri di questo genere scritti dagli anglosassoni. Quasi che ci fosse un modo tutto loro di concepire la divulgazione e l’approfondento su Paesi e culture straniere. Leggendolo si imparano molte cose sulla Scandinavia. Soprattutto si impara che si commette un grosso errore, da matita blu, a considerarli come un indistinto tutt’uno. Come se Svezia, Norvegia e Danimarca fossero realtà intercambiabili, che se ne stanno lassù e uno vale l’altro.
Le differenze ci sono e ci sono state. Anzi, la storia racconta di scontri fratricidi, di conquiste e secolari cattività, di odi reciproci e rivalità che vanno avanti ancor oggi. Un libro che va oltre gli stereotipi facendo quella che i buoni libri dovrebbero fare sempre: raccontarli per poi smontarli, prenderli seriamente per spiegare come e perché nascono e prosperano. Un libro denso ma leggibile, che permette di intraprendere un viaggio in una cultura ricca e complessa, pratica e funzionale. Così funzionale da prendere con la giusta filosofia anche il clima spesso inclemente. Perché come sostengono in Danimarca, non esiste il brutto tempo. Esistono brutti vestiti che non permettono di affrontarlo come si deve. O persone che non hanno la giusta predisposizione d’animo per viverci. E in cosa consiste questa predisposizione d'animo assai scandinava che segna una nuova via alla felicità? La risosta migliore mai sentita viene da un antropologo danese, Meik Wiking: «Qualcosa che è come un abbraccio, ma senza contatto fisico».