Che il turismo nel Sud Italia non esprima ancora, nemmeno lontanamente, il proprio potenziale non è solo una percezione diffusa ma una realtà confermata dai dati statistici più recenti. Se possiamo contare ogni anno su oltre 380 milioni di presenze – più del 45% imputabili a stranieri –, nemmeno il 20% si concentra nelle regioni del Sud. E guardando all’incoming – più “dinamico” in questi anni di crisi rispetto al domestico che ha registrato una pesante battuta d’arresto – il quadro è ancora più fosco: fatte cento le presenze straniere in Italia, solamente 13 sono al Sud.

Degli oltre 32 miliardi di euro, poi, che i turisti internazionali “hanno lasciato” nel nostro Paese nel 2012, appena 4 sono andati a beneficio del Mezzogiorno che, per fare qualche esempio, ha una capacità di attrazione della spesa simile alla Toscana (3,6 miliardi di euro) e, comunque, al di sotto del Lazio (5,4 miliardi). Anche i dati provenienti dal sistema aeroportuale confermano una situazione estremamente grave: degli oltre 146 milioni di passeggeri che affollano annualmente gli scali nazionali, solamente 34 milioni si concentrano in quelli del Mezzogiorno. Basti pensare che il solo aeroporto di Palma di Maiorca registra quasi 23 milioni di passeggeri all’anno!

Quanto potrebbe valere, allora, il turismo in Italia se si riuscissero a sfruttare le potenzialità di tutto il territorio, e non solo quelle da Roma in su? Già uno studio congiunto di Touring e Ufficio Italiano dei Cambi (ora Banca d’Italia) del 1998 aveva tentato di quantificare, in termini di ritorno economico e occupazionale, lo sviluppo turistico del Sud e l’Associazione, anche più recentemente, si è battuta per sollecitare un cambiamento culturale in tal senso ma nulla sembra essersi modificato in questi anni e la causa non è la mancanza di fondi (le recenti difficoltà del POIN “Attrattori culturali, naturali e turismo” confermano che le criticità sono spesso politiche): i contributi europei arrivati al Sud non hanno generato virtuose sinergie tra destinazioni, operatori e investitori esterni né hanno dato vita a poli di eccellenza che potessero “contaminare” positivamente i territori.

La soluzione? Coniugare lo sviluppo sostenibile del territorio e le imprescindibili logiche di mercato che impongono prodotti, servizi e infrastrutture in grado di far fronte a una domanda che ha sempre più alternative a disposizione. Per uscire, però, dalle “trappole del non-sviluppo” – come ha recentemente ricordato l'ex ministro Fabrizio Barca – occorre anche e soprattutto rinnovare la cultura delle attuali classi dirigenti.