Nel viaggio come nella vita c’è chi ama percorre le vie principali e chi preferisce imboccare via traverse. Lo scrittore austriaco Karl-Markus Gauss è tra questi. Percorre vie traverse di città spesso secondarie d’Europa e racconta impressioni, osservazioni e storie che chi legge ignorava non per proprio difetto –come se uno non sapesse nulla di Firenze e Dante, per dire –, ma perché Gauss dimostra di avere una cultura particolare e sterminata. Una cultura che si concentra soprattutto sul racconto di un’area fisica e storica affascinante di cui però ci rendiamo conto di aver sempre più perso le tracce, quell’aerea che è genericamente individuabile come l’Europa Centrale. Anche se in “Nella foresta della metropoli” (Keller editore, pag. 280, 18 €), ci sono anche divagazioni geografiche in territori diversi, come la Francia, la Grecia, il Belgio multiculturale o Napoli.
Ma l’intero libro di Gauss è una divagazione ben orchestra in cui parte dall’osservazione di aspetti minuti dei luoghi in cui si trova per squadernare storie di autori a noi poco noti che mentre leggi sei obbligato a fermarti e a fare due ricerche per chi capire chi siano. E poi quando l’hai capito, ti dici: «Ah, però, ma dai». Di questo libro ognuno può tenere memoria dei capitoli che più gli solleticano la fantasia, e bellamente dimenticarsi degli altri. E però, a lettura ultimata, esser grato lo stesso a Gauss di averlo guidato alla scoperta di qualcosa che ignorava.
Nel mio caso è la scoperta di Opole, città polacca sul fiume Oder – neanche tanto piccola, oltre 100mila abitanti –, oggettivamente fuori dalle rotte turistiche e a me del tutto ignota. Una città antica dove tutto è recente, perché il Fuhrer che amava la Slesia (la regione storica di cui Opole che i tedeschi chiamano Oppeln fa parte) sopra ogni cosa l’aveva fatta radere al suolo. E i polacchi hanno deciso di ricostruire tutto com’era prima. Una città la cui cultura un tempo era mista – polacca, ceca, austriaca, tedesca, ebraica –, ma che, scrive Gauss: «Era un posto in cui tutte le componenti etniche più che convivere coesistevano». Un posto che era l’ennesima deviazione sul tema architettonico e umano della cultura Mitteleuropea, città un tempo prussiana, oggi polacca, ma di estetica tedesca o forse meglio dire centroeuropea. Un posto dove a un certo punto qualcuno, non ascoltato, pensava fosse il caso di usare l’esperanto come lingua neutra e dunque comune, considerato che nessuno voleva imparare davvero la lingua dell’altra comunità. Un posto nelle cui vicinanze Gauss va a parlare con degli attivisti “slonsacchi”, gente che non si considerava né tedesca né polacca e non considerava né il tedesco né il polacco la propria lingua materna, ma che parlava una lingua che forse era un dialetto che alcune con disprezzo chiamavano “Wasserpolonisch”, ovvero polacco annacquato. Una lingua che in altre parti si chiama Laco, ma che è una fusione di elementi cechi, polacchi, tedeschi, slovacchi, con una grammatica strutturata sul polacco e un lessico di ascendenza tedesca.
Insomma, una macedonia linguistica con una data scadenza che sembra esser assai vicina. Una divagazione sul tema del nazionalismo di cui senza aver letto Gauss mai avrei saputo qualcosa. E invece adesso che ne ho letto, ho una incredibile voglia di andare a metterci il naso. Perché certi libri poco etichettabili, che spaziano nel tempo e nello spazio, che saltabeccano tra i generi e si avventurano lungo rotte immaginarie a questo servono: a saziare le curiosità e a stimolarne irrimediabilmente di nuove. E per un libro non è certo poco.