Per tutto maggio 2021, il sito del Touring Club Italiano - in collaborazione con Hertz - segue il Giro d'Italia edizione numero 104 (Torino, 8 maggio - Milano, 30 maggio). A raccontarci i luoghi del Giro d'Italia 2021 è Gino Cervi, scrittore e giornalista, nonché cultore di storia del ciclismo, curatore di guide turistiche Tci e autore di volumi di storia dello sport (tra cui i recenti Il Giro dei Giri e Ho fatto un Giro). Seguiteci lungo le strade del nostro Bel Paese! A questa pagina trovate tutte le puntate.
Ho dormito per due notti lasciando entrare dalla finestra socchiusa lo scrosciare delle acque del Cordevole. Un suono cordiale e piacevole. Il giorno di riposo l’ho trascorso ad Arabba, a mezza via tra i trentatré tornanti del passo Pordoi e i tredici del Falzarego, due santuari della storia del Giro d’Italia. Il toponimo ladino di Arabba è Reba: mi sono sempre chiesto che senso avesse cambiare il nome alle località che avessero una denominazione senza un particolare significato. Non sarebbe andato bene Reba anche in italiano?
Più o meno allo stesso modo mi chiedo perché il mio amico Cordevole – in ladino Curdëivul – , che mi ha fatto compagnia in questi due giorni, sia semplicemente etichettato come rio, o al massimo come torrente, e non come fiume. Il Cordevole nasce alla falde del Pordoi e poi ne fa di strada prima di buttarsi nelle acque del Piave, poco meno di 80 km a valle. Il Cordevole correndo verso la pianura raccoglie le acque degli altri torrenti dell’Agordino: a Caprile, quelle del Fiorentina che scende dal Pelmo e del Pettorina che vien giù dalla Marmolada; ad Alleghe forma un lago, originatosi duecento e passa anni fa per una frana scesa dal monte Piz; a Cencenighe accoglie il Biois, che arriva giù anche lui dalla Marmolada e dalle Pale di San Martino; a Taibon, quelle del Tegnas; e poco prima di buttarsi nel Piave, le acque del Mis. Insomma, ci vorrebbe un po’ più di rispetto per il Cordevole e le sue acque che prima erano nevi sulle cime più belle delle Dolomiti. Siamo a maggio, ma di neve ce n’è ancora molta in cima, e anche a quota più bassa. Ieri erano basse anche le nuvole e le montagne si potevano solo immaginare. Ma stamattina dal balcone dell’Hotel Malita – dall’ospitalità cordiale e piacevole come le acque del torrente che lo lambisce – vedo scintillare le guglie di Porta Vescovo e, poco più in là, il Sass Ciapel col suo buffo copricapo di roccia appoggiato in cima.
 
Arabba / foto Getty Images
Oggi si riprende a correre, passando dal Veneto al Trentino, dall’Agordino in val di Fassa, e ripartendo da Canazei. Si arriverà oggi pomeriggio a Sega di Ala, dopo un gomitolo ripido di strade che sale dalla val d’Adige verso i monti della Lessinia, di nuovo al confine tra Trentino e Veneto. La giornata, finalmente, sembra limpida e soleggiata. Non dovrebbe esserci il rischio di finire come sul Bondone, sessantacinque anni fa.
«Era il 1956, avevo sei anni e stavo sulle spalle di mio padre a veder passare il Giro. Abitavamo in un rione popolare, a Trento, tra il fiume e l’inizio della montagna. Pioveva a dirotto e vidi Charly Gaul, pedalare da solo, le mani staccate dal manubrio che si sbucciava una banana. Quello fu l’imprinting della mia passione ciclistica». È un ricordo di Andrea Castelli, attore di teatro, una carriera iniziata quarant’anni fa, partendo proprio dal teatro regionale, quello delle compagnie popolari e tradizionali, per poi approdare ai più importanti palcoscenici nazionali, con qualche incursione anche nel cinema (da ultimo, nel 2020, ne Il caso Pantani l’interpretazione del giudice istruttore Serao, del tribunale di Tione di Trento, che avvia le indagini sul caso di doping a Madonna di Campiglio).
Andrea Castelli in una scena di Pallone Rosso
«Il teatro appartiene alla storia della mia famiglia. Mio padre aveva una compagnia: si recitavano le commedie classiche in dialetto. Mi portava alle prove e fu inevitabile che prima o poi ci cascassi anch’io. Negli anni ’70 fondai a mia volta una compagnia di giovani: ci eravamo dati la missione di svecchiare la tradizione un po’ stanca del teatro dialettale trentino e di portare in scena storie contemporanee che provassero a scardinare un po’ di luoghi comuni di una realtà teatrale allora ancora molto periferica».
All’inizio degli anni Duemila, entra a far parte del Teatro Stabile di Bolzano. Per la regia di Marco Bernardi recita nel monologo Ciò che non si può dire, un testo di Pino Loperfido che racconta la tragedia del Cermis, l’incidente provocato nel febbraio del 1998 dal tranciamento di un cavo di una funivia causato da un aereo militare americano nei pressi di Cavalese, in val di Fiemme: vi morirono venti persone e la causa giudiziaria che ne seguì non fece giustizia dei responsabili della sciagura, processati negli Stati Uniti assolti dalle accuse di omicidio preterintenzionale. Dopo avere interpretato testi classici, da Ruzante a Goldoni a George Bernard Shaw, Castelli porta in seguito in scena altre storie “di territorio”, quelle in cui le biografie private incrociano la storia con la S maiuscola. In Avevo un bel pallone rosso, su testo di Angela De Matté e regia di Carmelo Rifici, interpreta il padre di Mara Cagol, trentina, leader delle Brigate Rosse e lo spettacolo gira in una lunga tournée nei principali teatro italiani.
«Nel mio teatro faccio spesso uso del dialetto, anzi, ho cominciato proprio da lì – continua Castelli - . Esprimersi in dialetto può servire per avvicinarsi di più alle cose che si raccontano, e in alcuni casi per avvicinarle al pubblico. Ma ho sempre pensato che la lingua in cui ci si esprime è solo uno strumento al servizio delle storie. La lingua del mio teatro è una lingua mista e mi sono sempre tenuto alla larga da facili e talvolta fasulle strumentalizzazioni del dialetto, come valore identitario di un’idea, specie se politica, come è capitato negli ultimi anni. Chi ha pensato di avvicinarmi in quanto portatore di una “bandiera” identitaria, e partitica, ne è rimasto deluso».
 
Ho chiesto a Castelli se è possibile individuare uno spirito identitario per una regione come il Trentino, o meglio la “provincia autonoma di Trento”, in cui i confini hanno avuto definizioni molto labili nel corso della storia. «Sì, la questione sta proprio qui. Siamo una terra di confine. Il tema dell’identità è stato soprattutto problematico per la generazione dei nostri padri, o dei nostri nonni. Prima troppo italiani quando erano sotto il dominio austro-ungarico, e dopo un po’ troppo tedeschi all’interno della nuova forma di unità nazionale. Ho provato ad affrontare nei miei spettacoli queste questioni storiche in alcuni spettacoli, scegliendo il registro comico, nel senso più letterario – e non televisivo, quello che adotta tutte le scorciatoie per arrivare più facilmente alla risata – del termine. Parlare della nostra storia con leggerezza mettendo in risalto le contraddizioni e i luoghi comuni della nostra tradizione di gente di montagna e di confine. Ad esempio, in uno spettacolo su Cesare Battisti, l’eroe dell’irrendentismo, ho cercato di parlare del suo essere, a seconda dei punti di vista da cui lo si voleva guardare, un patriota e martire della nostra autonomia; oppure un traditore, una spia, dal lato degli austriaci. Le verità storiche, come sempre, sono complesse e narrarle con lo spirito giusto, trovando nelle pieghe del passato dei riferimenti alle nostre vicende contemporanee è quello che cerco di fare con il mio teatro. E spero di esserci riuscito».
E c’è un un luogo, tra quelli oggi toccati dalla tappa, a cui Andrea Castelli si sente più legato, per motivi biografici e sentimentali? «È val di Fiemme, la valle delle mie vacanze di quando ero ragazzo e dove poi ho avuto per molti anni una casa. La conosco molto bene, e conosco la sua gente. Un luogo a cui mi ha ancora di più avvicinato l’aver messo in scena il monologo sul Cermis, una storia terribile, con un senso tragico di fatalismo: erano in molti che si aspettavano che sarebbe prima o poi successa una tragedia di quel genere, perché quelle esercitazioni militari facevano già paura da prima».
 
Lago Lagorai, sopra la val di Fiemme / foto Getty Images
 
Per chiudere il nostro incontro siamo ritornati da dove siamo partiti, dalla bicicletta, e da quell’imprinting della tappa del monte Bondone. «La mia prima bicicletta era un’Atala rossa con le gomme bianche. Uno spettacolo: nessuno aveva le gomme bianche, mi sentivo un privilegiato. Mio papà insegnò a pedalare senza rotelle, tenendomi di dietro per la sella. Quanto correre gli ho fatto fare! Ma la bicicletta era un oggetto amatissimo, che apparteneva alle nostre giornate di ragazzi. Ne avevamo molto cura: sapevamo cambiare le camere d’aria bucate, ci occupavamo delle piccole riparazioni e avevamo la borsetta degli attrezzi sempre agganciata sotto la sella. Poi c’era lo spettacolo dei grandi campioni di quegli anni, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta: Fiorenzo Magni, che corre mezzo Giro d’Italia con una clavicola fratturata, stringendo coi denti un tubolare agganciato al manubrio per alleviare il dolore. E Federico Bahamontes, lo scalatore spagnolo; e Van Looy, il velocista belga. Quando giocavamo coi tappini con le immagini dei corridori ciclisti incollate dentro, ognuno si sceglieva un campione. Il mio era Aldo Moser, trentino, una forza della natura, buono e generoso. Io stravedevo per lui».
 
La memoria di quell’infanzia di passione ciclista sarà il tema del suo prossimo spettacolo teatrale. S’intitola Bocinbici (ovvero “ragazzini in bicicletta”), sottotitolo Volevo far el coridor. Si apre con questo dialogo immaginario tra un giornalista e un gregario portaborracce:
 
Come va il suo Giro d’Italia?
Bene, dai, per quelo. Me contenterìa de finirlo…

Punta a qualche vittoria di tappa?
Mah… sono un umile gregario, porto le borracce… perché anca mi, quando i va ‘n salita e i tira… Se fa prest a zigàr “Boracia! Boracia”… férmete alora, aspéteme… no son miga Bartali! Fago quel che podo… el pù dele volte arivo al traguardo pien de borace che nessun ha mai doprà… e me toca anca svoidàrle!

Ma alla terza tappa, la Borgo Pinco-Vigo Pallino, si è piazzato secondo!
I è cascadi tuti… No so gnanca mi come che ho fat. Zercavo de piazzàr le borace e son passà ‘n mez… rode, cane, ragi, bici boci... l’è sta en casìn. El belga che ha vinzù no’l s’ha gnanca nascòrt i ha dovù fermarlo a scopeloni dopo ‘l traguardo… robe, robe…

Insomma le borracce sono il suo cruccio…
Ghe n’è dapertut anche perché le vola via dal gruppo quando i l’ha finide. Zerti i le tra anca ‘ndrìo, cossì… e chi èl che gh’è endrio, mi… devo star atento a no ciapàrle en facia, che zà g’ho le mie…

Ora che il teatro sembra, come il Giro d’Italia, pronto a riprendere la sua strada, non resta che aspettare di vederlo in scena nei prossimi mesi.

- Si ringrazia per la collaborazione l'Hotel Malita di Arabba.

 

Il "Giro del Touring" è realizzato in collaborazione con Hertz, storico partner di mobilità dell'associazione, che ha messo a disposizione di Gino Cervi un'auto ibrida per seguire le tappe della Corsa Rosa. 

I volumi Touring sul Giro d'Italia scritti da Gino Cervi: Il Giro dei Giri e Ho fatto un Giro.