Per tutto maggio 2021, il sito del Touring Club Italiano - in collaborazione con Hertz - segue il Giro d'Italia edizione numero 104 (Torino, 8 maggio - Milano, 30 maggio). A raccontarci i luoghi del Giro d'Italia 2021 è Gino Cervi, scrittore e giornalista, nonché cultore di storia del ciclismo, curatore di guide turistiche Tci e autore di volumi di storia dello sport (tra cui i recenti Il Giro dei Giri e Ho fatto un Giro). Seguiteci lungo le strade del nostro Bel Paese! A questa pagina trovate tutte le puntate.
La tappa di oggi, la terzultima di questo Giro, ci riporta in montagna, in Valsesia, a cui ci si arriva lambendo il lago Maggiore e il lago d’Orta. Il traguardo è posto sull’Alpe di Mera, uno storico alpeggio tra i 1500 e il 1700, diventato nel dopoguerra una delle prime stazioni sciistiche avendo il vantaggio di essere facilmente raggiungibile dalle città della pianura. Negli anni la stazione dell’Alpe di Mera ha subito la concorrenza di località sciistiche più attrezzate e prestigiose, come Alagna e i comprensori valdostani, ma la sua dimensione domestica continua a essere ancora apprezzata e frequentata.
Baveno, sulla sponda piemontese del lago Maggiore / foto Getty Images
La Valsesia per me è un posto da fuggitivi, o forse per chi va in cerca di qualcosa, fuori o dentro di sé. Ho cercato di confrontarmi su questa personale idea di Valsesia con Michele Marziani, scrittore, narratore di storie di montagna, ma anche esperto pescatore di trote e, in fondo, anche lui, fuggitivo.
«Sono nato a Rimini e a Rimini ho passato molti anni della mia vita. Ma ho vissuto anche in altri luoghi molto diversi tra loro. Da qualche anno ho deciso di stabilirmi in Valsesia, per la precisione a Campertogno. Ci sono momenti della vita che forse lasciano il segno più di altri, quello dell’adolescenza, per esempio. Quando ero piccolo la mia famiglia si è trasferita nel Piemonte orientale e io frequentavo il liceo a Novara. Quando decidevo di non frequentarlo, ovvero di “fare sega a scuola”, non mi pareva bello aggirarmi senza meta in una piccola città di provincia dove tutti ti osservano. E allora prendevo il treno per Varallo, che all’epoca c’era ancora, e salivo in Valsesia. Il mio amore per questo luogo nasce da lì. Probabilmente l’ho capito molto dopo, dopo essermi appassionato in generale di montagna e in particolare di una cosa di cui, modestamente, mi ritengo in qualche modo un esperto: la pesca alla trota. Pescare nei torrenti è la mia grande passione e in Valsesia è ancora uno di quei posti dove puoi prendere delle trote degne di questo nome. Il Sesia è un fiume meravigliosoe c’è anche un’ottima gestione della pesca. Ma soprattutto, come dicevo, ci sono delle trote che, dicono, piacessero molto anche a Napoleone…».
Il lago d'Orta e l'isola di San Giulio, in provincia di Novara / foto Getty Images
Michele Marziani ha spiegato bene il suo rapporto con la pesca in un piccolo, prezioso libro, Il pescatore di tempo. L’idea della pesca non è forse poi così lontana da quella che spinge qualcuno a fuggire via da qualcosa, forse anche a ribellarsi da qualcosa, proprio in cerca di una forma di libertà. 
«La pesca è un modo per ritrovare sé stessi, che se vuoi è già di per se stessa una forma di ribellione. In un mondo che ti chiede sempre di essere qualcosa che magari non vuoi essere. Trovare un luogo dove stare bene con sé stessi è già una conquista. Ecco, io l’ho trovato qui. Nel mio mestiere di cercatore e costruttore di storie da raccontareho bisogno di stare in un posto dove mi senta bene. E questo so che è il posto che mi fa stare bene».
«La pesca – continua Marziani – rappresenta per me un sacco di cose. Ma tra le tante c’è quella che quando sto male, quando la vita ti colpisce duro, portandoti via una persona cara, e ti senti un vuoto intorno, non sai più a cosa servi tu e a cosa serve la vita, ecco, allora io vado a pescare. Che poi pescare è solo una scusa, è un modo per darsi il tempo di fare molte cose: camminare lungo i torrenti, fermarsi a guardare l’acqua, pensare. Quando vado a pescare, non è che io trova le risposte alle domande sul dolore, l’angoscia… Però è in quel momento che di solito riesco a rendermi conto che esiste uno spazio per tutti. Fin da ragazzo, per esempio, ho sempre percepito e apprezzato una forte dimensione sociale nella pratica della pesca. Mi stupivo a vedere che c’era, che ne so, il commendatore, il professore che si inginocchiava davanti all’operaio per carpirgli il segreto per catturare la trota più bella. Il mondo diviso e segmentato in altre parti si ricomponeva, lì,in riva a un torrente o a un lago, come in una favola, e diventava più egalitario».
Michele Marziani sul Sesia
A proposito di sentimenti egalitari, e comunitari, e di ribellione la Valsesia nella sua storia ha conosciuto un esempio di chi ha dovuto ricorrere alla fuga di fronte alla repressione autoritaria di chi negava un’idea meno gerarchica della chiesa e più aperta alle necessità dei più deboli. «Sì, è la storia di fra’ Dolcino, e dei suoi seguaci, che a inizio Trecento, predicavano l’obbedienza alle Scritture e la pratica della povertà, ma soprattutto l’uguaglianza degli uomini non solo davanti a Dio, ma anche in questa terra. Trovarono dapprima rifugio sul Pian dei Gazzari, il breve pianoro in cima alla Parete Calva, sopra il villaggio di Rassa, nella valle del Sorba, una valle laterale tra Varallo e Campertogno, che non a caso viene denominata la valle dei Tremendi». 
Fra’ Dolcino seminò scompiglio nella Chiesa di Roma. Secondo la sua idea pauperistica il clero secolare era la causa di tutti i mali del mondo e dicevano alla povera gente che presto sarebbe giunta una “nuova era” che avrebbe ristabilito l’ordine e la pace. Non poteva passarla liscia: il vescovo di Vercelli, Raniero degli Avogadro, col beneplacito del pontefice, Clemente V, nel 1306 bandì una Crociata, radunò un esercito e lo fece marciare contro i dolciniani costringendoli alla fuga. Ridotti agli stenti da un inverno rigido, non erano ormai che qualche centinaio quelli che scesero dalla Parete Calva, risalirono la valle della Sorba e s’inoltrarono verso sud per gli alpeggi delle Prealpi biellesi, fino ad attestarsi sulle pendici del monte Rubello. Per un anno si difesero in un’ultima strenua resistenza. Ma la Settimana Santa del 1307 i pochi superstiti capitolarono sotto i colpi dei balestrieri genovesi assoldati dal vescovo Raniero. Dolcino e la compagna Margherita furono tratti prigionieri e, dopo pubbliche torture, arsi vivi sulla piazza di Vercelli. La memoria di Dolcino come precursore del socialismo venne ripresa da Dario Fo e Franca Rame, che ne fecero un personaggio del loro Mistero Buffo (1977).
Michele Marziani
Dolcino e i suoi erano ribelli costretti alla fuga. Ma non trovarono un traguardo felice. Nel ciclismo chi va in fuga in qualche modo si ribella al gruppo e cerca di “portarsi avanti” lungo la strada. In ogni caso, andare in fuga non è mai un atto di codardia, anzi: è un’azione di coraggio e avventura. «Vengo da una famiglia di ferrovieri e di filosofi, e non mi sono mai appartenute le metafore guerresche per parlare della vita. Quindi non ho mai pensato che fuggire fosse una cosa malvagia. Fuggire è il primo passo per esplorare, per sperimentare la possibilità di vincere. Ho un grande amore per l’idea delle fughe in avanti, indipendentemente da dove ti portano. Qualche volta ce la fai, qualche volta finisci prima le energie e non riesci a essere quello che vince. Fuggire significa comunque provarci».
Nel suo artigianale mestiere di inventore e costruttore di storie Michele Marziani ha raccontato tanti luoghi, veri o immaginari. Nell’ultimo suo romanzo, La cena dei coscrittisi parla di una singolare mobilitazione di un gruppo di attempati amici che in un villaggio di montagna si battono perché il loro paese non venda l’anima al diavolo sotto forma di un turismo che snatura e svilisce i luoghi.
Marziani ha nel suo repertorio un vero “giro d’Italia” di storie. Ma quale è il suo rapporto con il Giro vero? «Il Giro d’Italia che passa è affascinante. C’è una memoria collettiva. Quando alzo gli occhi e vedo il mio paese imbandito per il passaggio del Giro, le bandierine, i palloncini rosa, mi partono i ricordi. Nel 1966, quando avevo quattro anni mio papà mi portò nell’Agordino, vicino a Gosaldo, lì passava il Giro.  E passava Gimondi. Non mi ricordo altro che il viaggio, la strada, l’attesa, il cappellino fatto con il fazzoletto e quattro nodi. Della corsa praticamente niente. Ma non era importante: ero un bambino e quello che contava era il rito, l’esserci andato, l’aver aspettato. È successo la stessa cosa una decina di anni fa, quando il Giro passava da Rimini e ho preso mio figlio che allora era un bambinetto e gli ho detto “Aspettiamo il Giro d’Italia”. E il Giro d’Italia era tutto lì: la gente comune in bicicletta, le macchine della carovana pubblicitaria, quelle con gli altoparlanti, i gruppi dei ciclisti amatoriali che seguivano o anticipavano la corsa… Non importava chi fossero e noi non abbiamo forse riconosciuto nessun campione, ma siamo rimasti sulla strada a veder “passare il Giro”. Ed era bello lo stesso».
 

Il "Giro del Touring" è realizzato in collaborazione con Hertz, storico partner di mobilità dell'associazione, che ha messo a disposizione di Gino Cervi un'auto ibrida per seguire le tappe della Corsa Rosa. 

I volumi Touring sul Giro d'Italia scritti da Gino Cervi: Il Giro dei Giri e Ho fatto un Giro.