Per tutto maggio 2021, il sito del Touring Club Italiano - in collaborazione con Hertz - segue il Giro d'Italia edizione numero 104 (Torino, 8 maggio - Milano, 30 maggio). A raccontarci i luoghi del Giro d'Italia 2021 è Gino Cervi, scrittore e giornalista, nonché cultore di storia del ciclismo, curatore di guide turistiche Tci e autore di volumi di storia dello sport (tra cui i recenti Il Giro dei Giri e Ho fatto un Giro). Seguiteci lungo le strade del nostro Bel Paese! A questa pagina trovate tutte le puntate.

Il primo giorno di riposo al Giro d’Italia l’ho passato a Foligno che molti sostengono, e non senza dispute – il titolo è conteso da Narni e Rieti -, essere l’ombelico d’Italia o, addirittura, iperbolicamente, lu centru de lu monnu. Non so se sia scientificamente vero – del resto non ho davvero ben capito come si faccia a stabilire il centro geografico dello Stivale – ma non importa. Importa che prima di riprendere la strada che oggi da Perugia, in Umbria, ci porterà in val d’Orcia, a Montalcino, in Toscana, si raccontino almeno un paio di incontri folignati. 
LE SORPRESE DI FOLIGNO
Il primo è con Luca Radi che, dato che siamo in tema dantesco, è stato un poco il nostro Virgilio folignate. Con lui si potrebbe fare un Giro d’Italia di Foligno e dintorni e restare qui tre settimane ad ascoltare storie che escono dal suo cilindro giocoso della memoria. Tutti più o meno sanno che Foligno è una delle culle dell’arte della stampa in Italia, come testimonia il ricco museo di palazzetto Orfini, affacciato in piazza della Repubblica, salotto buono della città. Fin dal 1470 la presenza di tre tipografi tedeschi, chiamati dalla famiglia Orfini, incisori e zecchieri pontifici, fece sì che nel 1472 a Foligno venisse prodotta la prima edizione a stampa della Divina Commedia e altri importanti incunaboli di celebri opere letterarie. Sono molti di meno a conoscere dell’esistenza a Foligno di un velodromo storico, quello ancora oggi visibile nel parco comunale del Canapé, nel tratto di mura tra porta Todi e la torre del Seminario. Nato alla fine del Settecento come parco urbano, nell’Ottocento divenne sede di manifestazioni ippiche, circensi, di voli con pallone aerostatico, fino a quando, a partire dal 1899, il Veloce Club folignate lo utilizzò per ospitare corse velocipedistiche. Nei primi anni del Novecento al Canapè di Foligno corsero campioni come Ganna e Galetti, il francese Petit-Breton, fino ad arrivare agli anni Venti, per la precisione il 15-16 agosto 1925, quando in una riunione si cimentarono i più forti pistard-routier del momento, da Girardengo a Belloni a Pietro Linari. Al Canapé corse anche Alfonsina Strada, unica donna a prendere parte, insieme agli uomini, a un Giro d’Italia nel 1924.


Foligno - foto Getty Images

Ma l’asso nella manica per noi, suiveurs-flaneurs, del Giro d’Italia Luca Radi lo esibisce quando ci porta nel backstage della Giostra della Quintana. La Giostra della Quintana sta a Foligno come il Festival della canzone italiana a Sanremo o come il Carnevale a Rio. Due volte l’anno, a giugno (la sfida) e a settembre (la rivincita), la città intera si mobilita intorno una delle manifestazione storiche in costume più spettacolari del calendario nazionale. La giostra si tiene ininterrottamente dal 1946 nelle forme di un torneo cavalleresco tra i rappresentanti dei diciassette rioni cittadini, preceduto da altri eventi, come la fiera dei Soprastanti e il corteo storico che si svolge per le vie cittadine la sera prima della disfida, che ha invece il suo “palcoscenico” nel “Campo dei giochi”, ovvero lo stadio. Luca Radi, che da qualche anno presidente della commissione artistica che sovrintende all’evento – una specie di “architetto della gran festa” – con un vero coup de theatre, ci ha introdotto nelle stanze di palazzo Candiotti, sede dell’Ente Giostra, per mostrarci gli sfavillanti costumi alla moda secentesca dei quali si addobbano le rappresentanze rionali per sfilare nel corteo al frastuono incessante dei tamburi. Non ho resistito e ho provato anch’io l’ebbrezza di calcare un cappello piumato e imbracciare uno spadone. 


Gino Cervi in costume

Un altro singolare incontro in piazza della Repubblica, a Foligno, è stato quello con Stefano Romagnoli. Stefano a Foligno gestisce un negozio di forniture elettriche, azienda di famiglia, che, come dice, Luca Radi, «ha dato la luce a mezza città». Ma i riflettori di Stefano Romagnoli sono da decenni accessi sui palcoscenici teatrali di tutta Italia: dalla metà degli anni Novanta assiste a una media di trecento spettacoli teatrali con un assiduità e una conoscenza, soprattutto nell’ambito del teatro contemporaneo, che lo hanno fatto diventare un vero “influencer” in materia. La sua pagina Facebook, spettatoreprofessionista è frequentata da numerosi appassionati che si scambiano recensioni e informazioni sul calendario degli spettacoli teatrali, un’agenda preziosa e condivisa delle produzioni in circuito. Durante questo anno di stop forzato, Stefano ha fatto di necessità virtù: impedito dal suo girovagare da “spettatoreprofessionista”, mettendo mano al magazzino del suo negozio, ha riesumato pezzi fuori commercio (e fuori norma) di vecchi interruttori elettrici e ne ha fatto un simbolico gadget da regalare agli amici, col significato beneaugurante di poter presto riaccendere con il tasto ON le luci della ribalta. 

LA FILIERA CORTA DI MONTALCINO
Per l’arrivo di oggi a Montalcino - borgo certificato dal Touring con la Bandiera Arancione - ci attende invece Stefano Cinelli Colombini, titolare della storica azienda della Fattoria dei Barbi, uno dei produttori bandiera del Brunello. A Stefano Cinelli Colombini abbiamo chiesto di introdurci nel inconfondibile paesaggio vitivinicolo di Montalcino. «Sono legato a Montalcino da moltissime cose. È un legame familiare. Appartengo a una vecchia famiglia senese che dal 1354 ininterrottamente ha terre a Montalcino. E poi è una scelta di vita. Io ho una formazione di studi giuridici ma la mia ambizione giovanile sarebbe stata quella di fare ricerca storica in università. E quella era la strada che avevo intrapreso. Poi però sono stato chiamato a farmi carico delle responsabilità che una famiglia come la nostra, antica di secoli, richiede. Ho cominciato così, dopo gli studi e un pur breve percorso in università, a lavorare nell’azienda familiare. E devo dire che non ho rimpianti. La nostra azienda agricola richiedeva un impegno vasto e variegato e io mi sono, gradualmente, occupato un po’ di tutto. Inizialmente mi sono occupato della coltivazione dei cereali e degli allevamenti di maiali e di pecore. La nostra azienda, fin da cent’anni fa, per volere di mio nonno, ha introdotto con grande anticipo la filosofia del ciclo chiuso produttivo. Mio nonno fin d’allora sosteneva che l’agricoltura non avrebbe avuto un futuro se non sarebbe arrivata a trasformare in loco tutto quello che produceva. Fin da sempre ha sostenuto che la forza identitaria e qualitativa di un’impresa agricola fosse quella di vendere direttamente al pubblico i nostri prodotti, dai salumi ai formaggi». 


Stefano Cinelli Colombini

Il concetto di filiera corta nasce quindi da queste parti: «Giovanni Colombini era una figura molto particolare – continua Cinelli Colombini – . Anche lui laureato in legge era figlio di Pio Colombini, un luminare della medicina italiana dei primi del ‘900, colui che trovò il primo efficace rimedio alla sifilide. Mio nonno sosteneva che un’azienda agricola per poter fare reddito dovesse liberarsi dalle troppe intermediazioni di trasformazione e commerciali che interessavano la materia prima prodotta. Nello stesso tempo, credeva fortemente in una funzione sociale dell’impresa agricola. E si è impegnato a dare vita a un’azienda che fosse produttiva 365 giorni l’anno. La nostra famiglia aveva da sempre le vigne e uliveti, ma queste attività hanno dei tempi stagionali ben definiti, dalla vendemmia o raccolta e poi dalla lavorazione in cantina o in frantoio. L’azienda fin dagli anni Trenta si è strutturata per poter autoalimentarsi e dare lavoro in tutto l’arco dell’anno. Il “ciclo chiuso”, come lo chiamava mio nonno, è diventato oggi un principio di sostenibilità ambientale e anche una garanzia di controllo qualitativo sul prodotto. Oltre a essere un esempio di versatilità professionale dei nostri dipendenti che, a seconda delle stagioni, si occupavano dei campi o delle vigne, degli ulivi o degli animali d’allevamento».


I vigneti intorno a Montalcino - foto Getty Images

Ma in un’azienda come la Fattoria dei Barbi alle competenze tecniche e imprenditoriali non si può non combinare la consapevolezza della storia e alla tradizione che sta dietro l’attività agricola. «Diciamo che la formazione umanistica – continua Cinelli Colombini – mi ha dato una mano in un secondo tempo. Una volta acquisite le competenze necessarie per sapermi orientare e districare tra le esigenze della programmazione, della produzione e della commercializzazione, quando negli anni Ottanta ho iniziato anche a occuparmi del vino, sapere quale storia secolare sta alle spalle di un prodotto così peculiare come il Brunello è servito non poco. Già in quegli anni i consumatori iniziavano a essere affascinati dai contesti culturali, dalle narrazioni che accompagnano il fare il vino dalle nostre parti». E cosa appare, in prima battuta, a chi incontra questi territori a storica vocazione vitivinicola se non il paesaggio? «La conoscenza della storia di un luogo è importante. Un vino, ma anche un formaggio, un salume è il risultato di una combinazione di fattori storici, geografici e vorrei dire essenzialmente umano, più che tecnico. Le faccio un esempio, non dalle uve Sangiovese otteniamo il Brunello, ma potremmo utilizzarle per produrre altro. Invece la nostra storia, la nostra identità è legata a questo vino. Ne riflette il carattere, quell’essenza immateriale che si tramanda di generazione in generazione. E ne rispecchia il contesto di cultura materiale, soprattutto negli abbinamenti ai cibi di tradizione, quelli più autentici e che non sono i piatti omologati e senza anima e buoni solo per comunicare una generica “cucina toscana” che non esiste, e non è mai esistita. Qui è il regno dei pici fatti a mano, col sugo di nana, l’anatra, o col sugo di briciole, o le scottiglie, o, per dolce, il caffè in forchetta. Questi sono i gusti nostri, quelli in cui ci ritroviamo».

Ho chiesto a Stefano Cinelli Colombini se anche il Brunello rispecchia il genius loci. «Il Brunello “è il montalcinese”. Questa nostra è una campagna bellissima, frutto di secoli e secoli di cura quasi maniacale, e di profondo rispetto: lo si scorge nel dettaglio architettonico, nella geografia degli insediamenti, e nell’eleganza austera di questi luoghi. Così è il nostro vino, elegante e austero: nel Brunello trovi il paesaggio e il carattere dei montalcinesi. I montalcinesi, per fortuna, sono molto gelosi della propria terra: nonostante le sempre più insistenti ambizioni “straniere”, per due terzi le proprietà vitivinicole di Montalcino e dintorni sono ancora nelle mani di famiglie locali, o di chi, come la nostra, senese d’origine, però vive e lavora qui da seicento e passa anni».


Montalcino - foto Getty Images

Il fatto che il Giro d’Italia incroci sempre più spesso da queste parti lo ritiene un fortunato connubio? «Io vado moderatamente in bicicletta, non sono né un tifoso né un esperto di ciclismo ma ho grande simpatia per il ciclismo e il Giro fin da quando ero ragazzino e giocavo coi tappini che avevano le immagini dei grandi campioni della mia infanzia, Merckx, Gimondi e di quei tempi forse un po’ più eroici e affascinanti di quelli attuali. Non seguo, lo ammetto, il ciclismo contemporaneo, ma per il Giro faccio un’eccezione. E ovviamente lo faccio ancora di più quest’anno che la corsa passa dalle nostre strade, le nostre strade bianche, per di più».

Non è un caso che proprio Montalcino sia una delle culle del rilancio del ciclismo delle Strade Bianche. Tutto nasce un po’ più a nord, a Gaiole in Chianti, con L’Eroica, invenzione visionaria di Giancarlo Brocci che quasi trent’anni fa partorisce il progetto di riproporre i valori antichi del ciclismo appunto “eroico”, quello della polvere e del fango, dell’età dell’oro che arriva fino a Coppi e Bartali, per farne una metafora di riappropriazione popolare di uno sport assediato e minacciato dalle derive dello sport business. Montalcino da qualche anno è una sorta di versione “primavera” dell’Eroica di Gaiole e attira ogni anno migliaia e migliaia di  appassionati delle due ruote d’antan. Biciclette d’epoca e abbigliamento vintage sono però più che altro un pretesto, un parola-chiave, per ri-ancorare le passioni, e le buone pratiche – ambientali, alimentari e più in generale culturali – a un patrimonio di memorie e di virtù sportive che ha costruito l’identità di una nazione. Non è però solo operazione-nostalgia, perché L’Eroica, in questi anni, che hanno visto il fenomeno mutare pelle, diventa l’emblema di una nuova via alla praticabilità sostenibile di uno sport più sano e più autentico, più vicino alle proprie radici culturali. Il concetto di Strade Bianche, le strade interpoderali miracolosamente scampate allo scempio generalizzato dell’asfalto, è dunque diventato un modello che, col linguaggio della bicicletta, sa parlare anche d’altro e ad altri. 

Il "Giro del Touring" è realizzato in collaborazione con Hertz, storico partner di mobilità dell'associazione, che ha messo a disposizione di Gino Cervi un'auto ibrida per seguire le tappe della Corsa Rosa. 

I volumi Touring sul Giro d'Italia scritti da Gino Cervi: Il Giro dei Giri e Ho fatto un Giro.