La prima tappa siciliana del Giro d'italia 2017 è terminata sulle falde dell'Etna, presso il Rifugio Sapienza. Qualche giorno dopo a Rovetta, Prealpi bergamasche, il nostro inviato Gino Cervi ha incontrato un'altra Sapienza, quella che fa da cognome a Davide, giornalista, scrittore, traduttore, camminatore, anche pedalatore e molto altro. Vediamo cosa.
GC: Cosa ci fa un Sapienza, nome siciliano, a Songavazzo, all'ombra della Presolana?
DS: Domanda legittima: l’Etna è il mio sapore profondo, il nonno paterno veniva da lì, da Santa Venerina, e proprio di recente ci sono tornato, perché il richiamo resta sempre forte. Non a caso, credo, ho scelto di venire a vivere a Songavazzo, tra vette orobiche e lago, dove posso ascoltare meglio ciò che ho intorno. Venendo a vivere qui, camminare e andare in bicicletta sono diventati per me due modi di esplorare il mio nuovo territorio e soprattutto capire il rapporto tra quello che considero la nostra antenna – il corpo – e le profondità della natura.
Il fatto che io abbia avvertito la necessità di lasciare Monza, la mia città, ormai nel 1990 deriva proprio dal bisogno di cercare altri orizzonti: qui, ho potuto imparare, esplorare, inventare i miei mondi, il mio modo di camminare e di pedalare su sentieri e strade di montagna e di lago, vedere con occhi sempre diversi quelle cose che a volte si danno per scontate e che poi, ogni volta, si svelano diverse. Qui, credo, c’è davvero qualcosa di vulcanico: l’idea che quel tipo di montagna sia in continuo cambiamento, il magma come simbolo di qualcosa di dinamico e allo stesso tempo fortemente caratterizzante, qualcosa di inesorabile e inarrestabile. Un po' come il flusso di coscienza e il cammino della vita.
Il rifugio Sapienza, base per affrontare l'ascesa ai crateri sommitali dell'Etna
GC: La musica, la scrittura, il camminare: quante sono le vite di Davide Sapienza?
DS: La musica è stata la mia prima chiave espressiva, non tanto come artista, ma come interprete di altri: ha avuto un ruolo importante nel convincermi che se volevo ascoltare i territori che più mi attraevano, la geografia della musica era un lasciapassare per capirne meglio gli autori. Siamo forme della terra, scriveva John Trudell, e di questo ne sono profondamente convinto: da giovane notai presto che amavo la musica capace di descrivere geografie vaste.
Quindi, scrivere: poesia e abbozzi narrativi, sino a inventarmi il mio modo, una scrittura totalmente nuova per il primo libro geopoetico inteso come tale, I Diari di Rubha Hunish del 2004, che ho appena ripubblicato. Un libro che viaggia, più che di viaggi: dentro c’è anche la bicicletta, le esperienze inebrianti di una salita sotto un temporale incredibile al passo Pordoi da Canazei - una cronaca in diretta che scrissi non appena giunsi al Pordoi su un pezzo di carta - , ma anche le riflessioni artiche che mi portai dentro facendo la Trondheim-Oslo su strada, 546 km, in 17 ore e 28 minuti, nel giorno del mio compleanno, il 23 giugno, dell’anno 2000.
Un anno speciale, nel quale feci 16.000 km in bicicletta da strada e mtb, ma anche spedizioni con gli sci in Islanda a fine inverno, salite a diverse vette, lunghi trekking che modificarono molto la mia percezione. Due ruote o scarponi per me sono sempre stati un modo di esplorare il mondo.
Davide Sapienza in una valle della Bergamasca /foto Claudio Carminati 
GC: Quindi hai avuto anche una “vita in bicicletta”?
DS: La vita in bicicletta ha vissuto anni intensi, una decina, che mi hanno aiutato a recuperare la mia fisicità: mi ha molto aiutato avere avuto una vita molto sportiva da ragazzino e adolescente, con il basket alla Forti&Liberi di Monza e al Garegnano di Milano, ma anche tanta bicicletta vagabonda in giro per la Brianza: un modo per fuggire dal rumore e sentirmi esploratore del mio mondo.
Chiaramente la parte sportiva e agonistica, espressa con la partecipazione a decine di Gran Fondo sia su strada che in mtb, mi hanno aiutato a recuperare confidenza con il corpo. Ma preferisco usare questi mezzi per respirare e non rimanere troppo suggestionato dal cronometro e dal pettorale. Perché credo fermamente che più vai di corsa, più il tempo ti sfugge: ecco perché tanti anni fa ho chiuso con le gran fondo e quel tipo di mondo a due ruote un po' “fissato” - come lo ero anch’io - , pur ricordando con molto affetto esperienze come le randonneés - nel 1999 mi qualificai per la leggendario Paris-Brest-Paris, che poi non potei fare per ragioni personali - durante le quali ebbi modo di confrontarmi con paesaggi e persone, difficoltà e momenti difficili.
La Parigi-Brest-Paris, una classica delle Randonné
GC: Prima hai detto un aggettivo “strano”: geopoetico. Che cos'è la geopoesia?
DS: È la poesia della geografia, è l’unione tra la scienza forse più vera, perché il paesaggio non mente mai, e una chiave interpretativa che è la poiesis, il fare creativo, la capacità di connettere elementi che in genere vengono descritti come se fossero separati tra loro.
Quando cammini, o pedali, lungo piccole strade di campagna o stradine di montagna, è come se ogni pezzo del puzzle andasse al proprio posto grande a quel grande collante che è il respiro, la vita del tuo corpo, l’antenna più potente che abbiamo a disposizione per esaltare la percezione della realtà e andare oltre la superficie delle cose.
I vertiginosi tornanti del passo dello Stelvio
GC: E quindi come si legge un paesaggio, o almeno, come fai a leggerlo tu?
DS: Leggere un paesaggio dovrebbe essere un’operazione spontanea, a strati successivi nel tempo della nostra esistenza. Un paesaggio che vedremo una sola volta, ci impone di rizzare le antenne, di essere percettivi al massimo.
Ma un paesaggio non è solo la cartolina di qualcosa di vasto, può essere la radura in un bosco che si apre sotto un pinnacolo di calcare, oppure una cascata incassata tra due pareti con delle pozze d’acqua e poi un panorama che si apre in lontananza, o ancora un promontorio sul mare che ci ricorda un promontorio erboso in montagna, che si apre invece sul cielo o su una distesa che un tempo fu mare. Cercare di interpretarlo è una delle cose che più amo fare, separando bene il fatto che quasi tutti i nostri paesaggi sono stati modificati per millenni dall’uomo e che dunque, lì dentro, abbiamo un codice che ci accomuna a quei nostri antenati precedessori.
Diverso è quando ti trovi in territorio selvaggio, dove la presenza umana è stata minima o quasi nulla e allora intervengono altre facoltà che devono partire dal principio più semplice. Cosa ci faccio io lì? Cosa desidero? Dove voglio andare? La lettura del paesaggio è come la scrittura di una storia. Accade a velocità differenti, ma siamo sempre in “registrazione” anche quando non ci pare di esserlo.
Un alpeggio sui pendii della cima Laurasca, in Val Grande
GC: E dalla bicicletta come appare un paesaggio?
DS: Pedalando si percorrono distanze notevoli rispetto al nostro normale modo di muoverci a piedi: questo offre diverse altre possibilità, estende la mappa che si forma mentalmente in noi. A me capitava persino nelle Gran Fondo, essendo io non certo concentrato sulle posizioni di classifica.
Passare dai paesi della Val Vigezzo, oppure dalla periferia di Milano per giungere a San Remo, o ancora fare gli otto passi dolomitici per la Maratona Dles Dolomites o le mie salite di casa per la Felice Gimondi, mi ha consentito di tracciare a grandi linee mappe che poi ho traslato nel mondo “lento” del camminare. Ovviamente altro è pedalare con una mtb, perché se hai voglia di avventura sei disposto anche a lunghi tratti a piedi, “asinate” nei boschi o nei torrenti, insomma, a mescolare le carte e farti suggestionare: ma la lettura del paesaggio che ne esce rivela spesso cose straordinarie.
GC: Dal paesaggio come nascono le storie?
DS: Non ho una regola: a me viene spontaneo pensare alle mie storie calate in un paesaggio, vedere le persone inserite in contesti dove il territorio è importante. Non a caso nei miei libri e nei miei racconti la presenza umana è ridotta al minimo, non perché non le dia importanza – al contrario, è talmente importante da non volere affollare troppo quel “territorio narrativo” per me sacro.
Ecco come nascono certe cose che ho scritto, tutte frutto dell’idea che nella relazione tra esseri umani e territorio si trovi il seme di ogni cultura e che ogni cultura, in tal senso, abbia una sua peculiarità che è del tutto simile alla biodiversità: la natura promuove la biodiversità, l’uniformità appartiene alle cose noiose - non a caso un esercito ha “l’uniforme” - , purtroppo oggi si tende troppo spesso a pensare che l’uniformità sia un bene perché la divinità assoluta è diventata il mercato globale.
Stare nel paesaggio, essere paesaggio, ci insegna invece che la nostra unicità non ci rende straordinari, ma semplicemente parte di questa “biodiversità”, dunque, della vera ricchezza della vita.
Un'immagine d'epoca della Paris-Brest-Paris
DAVIDE SAPIENZA
Davide Sapienza è nato nel 1963 a Monza e dal 1990 abita sotto la Presolana nelle Orobie dal 1990. È scrittore e giornalista, traduttore di classici, tra i pionieri dei cammini letterari anche di più giorni, attualmente autore di reportage ed editorialista dell'edizione bergamasca del Corriere della Sera . Dopo quindici anni nell'editoria musicale, con la pubblicazione nel 2004 de I Diari di Rubha Hunish (BaldiniCastoldi) lancia una nuova forma di narrativa geopoetica legata al viaggio e al racconto delle storie che legano territori e cultura. Ha scritto reportage per importanti magazine da varie parti del mondo; nel 2009 la Tv Svizzera Italiana gli ha dedicato un documentario. Il suo ultimo libro è Camminando (Lubrina Editore; Feltrinelli Zoom Digital) del 2014. Tra i titoli più conosciuti anche La Musica della Neve (Ediciclo 2011).