Quando viaggiare non è un’opzione praticabile per i motivi che tutti sappiamo ed è giusto fermarsi e stare in casa finché l’onda non sarà passata. E dalla poltrona del salotto, dalla sedia in balcone, dal comodo del proprio divano si può comunque continuare a muoversi con la mente mettendo in pratica quello che i britannici chiamano “armchair travel”, ovvero la lettura di libri di viaggio. Reportage che permettono una innocente evasione in compagnia di chi è partito per saziare la sua curiosità o lo spirito d’avventura ed è tornato per raccontarlo. Racconti di prima mano di mondi lontani e diversi, esperienze ricche di passione, empatia e divertimento spesso in zone periferiche che magari mai visiterete, ma che stuzzicano fantasia e voglia di scoprire. E poi, chi lo sa, non è detto che a emergenza finita, non si decida di partire con un libro sotto braccio per visitare i luoghi di cui si è letto in questi giorni…
Ecco la trentesima puntata.
Quando finisci di leggere un libro di Franco Arminio ti senti in colpa. Non per averlo letto, per carità, perché è sempre una piacevole, densa, poetica lettura. Ti senti in colpa per tutte le volte in vita tua in cui sei passato da un paese di quelli di cui non conoscevi il nome e non ti sei fermato. Le volte in cui non hai passato qualche ora o qualche giorno in posti che si chiamano Lacedonia o Rocchetta, Sant’Arcangelo Trimonte o Zungoli.
O se anche per caso e per accidente ti sei fermato hai consumato un rapido caffè lungo la strada, senza prenderti invece il tempo di osservare la piazza e la vita sulla panchine sotto gli alberi, ad ascoltare i rintocchi delle campane che battono l’ora e i quarti d’ora, non hai vissuto l’attesa di qualcosa che non arriva, non ti sei interessato ai discorsi da bar o da panchina, non hai voluto saperne di più di quel paese, di quella gente, di quelle storie. Non hai un ricordo e un’immagine, nulla. Il tutto perché non hai avuto abbastanza pazienza e non hai lasciato che arrivasse un signore che, avendoti inquadrato inevitabilmente come forestiero, dopo poco avrebbe rotto il ghiaccio e ti avrebbe chiesto: «Ma tu, a chi appartieni?».
 Ecco, così quando finisci un libro di Franco Arminio ti senti in colpa per aver ammirato la sua prosa poetica ma per non aver messo in pratica l’insegnamento che viene dalla sue parole, siano esse quelle di Vento forte tra Lacedonia e Candela (edito da Latenza nel 2008 e da poco ripubblicato in una nuova edizione), oppure quelle di Terracarne, uscito con Mondadori nel 2011 o ancora Geografia commossa dell'Italia interna (Bruno Mondadori, 2012). Pagine e parole che costituiscono i tasselli di un viaggio nei paesi invisibili (ma anche in alcuni di quelli gitanti) dell’Italia interna, soprattutto l’Italia del Sud. Un viaggiare che per Arminio è una disciplina non scientifica, la paesologia, che diventa un modo di guardare al mondo e di raccontarlo.
Organizzati per brevi testi di qualche pagina, osservazioni emozionali di piccole realtà, i libri di Arminio raccontano di quella che ogni volta viene definita Italia profonda, spina dorsale d’Italia, Italia interna. Del resto sono tanti e vari i modi con cui si è definita quella parte del nostro Paese che non è bagnata dal mare, non è una grande città e nemmeno un piccolo borgo perfetto, oggettivamente pittoresco (ammesso che pittoresco voglia dire qualcosa) e ricco (come quasi ogni parte d’Italia) di storia, e per anni non ha interessato quasi nessuno a meno che non venisse giù tutto per un terremoto o non ci fosse qualche caso di cronaca - meglio se efferato, altrimenti nulla – di cui parlare per settimane. 
Ecco, in questa Italia che non va in prima pagina, ma neanche nelle pagine secondarie a meno che non siano quelle dei necrologi, si muove con discrezione e manifesta passione Franco Arminio, anche lui abitante di uno di questi borghi. Spesso sono luoghi arresi, con un passato anonimo e un presente inerte. Luoghi svuotati dagli abitanti perché da mezzo secolo almeno l’attrattiva è diventata la costa o i paesi del fondovalle, quelli medi – spesso non belli, anzi piuttosto brutti e cresciuti a casaccio – che hanno però la fortuna di essere vicino a qualche via di comunicazione o di concentrare le attività amministrative di base, qualche scuola superiore e alle volte qualche azienda.
Quelli che invece racconta Arminio, concentrandosi tra la sua Irpinia e la Lucania, ma andando anche nel Tavoliere, in Molise e sotto Salerno, nel Sannio e fino in Val Germanasca, «sono i paese dove si sente l’assenza di chi se ne è andato e di chi non è mai venuto»; «luoghi che issano bandiera bianca»; paesi dove «la vita ti sta davanti con la sua incompiutezza perenne». Paesi che stanno sparendo, svuotati, invecchiati, abbandonati, «come attraversati da una slavina silenziosa». Posti che ci metti più tempo a raggiungerli con provinciale tutte curve e asfalto rappezzato che a visitarli. Perché sono posti dove non c’è niente da vedere, almeno non di quello che segnalano le guide e le riviste di viaggio; posti fuori moda e forse fuori tempo massimo. Luoghi marginali, dai nomi antichi, belli e rotondi, luoghi dove non se la passano bene, dove c’è silenzio e aria pura, vero, ma dove vorrebbero un poco di vita e forse anche cambiare passo. Luoghi rifugio, che sono stati e stanno svanendo. Luoghi da cui farsi incuriosire, in cui passare del tempo per mettersi in ascolto, ritrovare nella parola e nell’osservazione l’essenza della parola viaggiare.

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