Ognuno di noi ha un libro della sua infanzia che l’ha formato e introdotto alle cose del mondo. Alcuni sono libri classici, dal valore universalmente riconosciuto, altri sono libri che uno si è trovato in casa, ha letto per caso e per diletto e ci ha costruito il suo mondo letterario e non solo. Alle volte sono libri generazionali, come un Giovane Holden di Salinger o Sulla Strada di Kerouac, altre sono libri d’avventure, come L’isola del tesoro di Stevenson, Cuore di tenebra di Conrad o, perché no, certi fumetti di Corto Maltese o Diabolik.
Per Peter Hopkirk, storico e giornalista inglese e che deve la sua fortuna letteraria alla capacità di raccontare in modo affascinante e dettagliato le trame del Grande Gioco dell’Asia centrale, il libro della vita è Kim di Kipling. «Un libro che mi ha aperto gli occhi su di un universo tutto nuovo: il misterioso Oriente». Oriente che per Hopkirk non sono le terre suadenti del Sud Est asiatico di Maugham, o i deserti di Lawrence d’Arabia, ma quella terra di mezzo tra la Russia e l’India, quella fetta di Asia centrale che va dal Caspio e arriva in Tibet dove soprattutto tra metà Ottocen­to e Prima guerra mondiale si sono fronteggiate la Russia zarista e l’Inghilterra vittoriana per il dominio sull’Asia. Terre dove appunto si svolge la narrazione del romanzo di Kipling.
Kim, per chi non l’avesse letto o l’avesse letto da ragazzino e dunque giustamente non ricordasse molto a parte il fatto che è ambientato in India, è il racconto delle avventure di un ragazzino orfano e del suo reclutamento nell’Indian Secret Service. Delle sue peregrinazioni per l’India coloniale brittanica in compagnia di un santo monaco tibetano alla ricerca di un fiume “sacro”, del suo apprendistato al diventare una “spia” ma anche un geografo capace di misurare senza strumenti il territorio e costruire mappe mentali che diventeranno fisiche. Un romanzo prettamente coloniale per temi ed epoca: criticato da molti intellettuali indiani e inglesi per essere appunto “coloniale”, ma amato da Hopkirk proprio per essere coloniale. Un libro che un grande critico del colonialismo come Edward Said ha comunque definito «un grande monumento storico e una pietra miliare estetica sulla strada che porta all’indipendenza dell’India».
Un libro che è romanzato sì, ma anche basato su fatti e persone reali in cui Kipling si doveva esser imbattuto durante la sua carriera giornalistica nelle terre dell’Impero. Ed è di queste tracce reali che Peter Hopkirk parta alla caccia nel suo viaggio in India con la copia consunta del libro sottobraccio. Un viaggio che capitolo dopo capitolo segue le tracce geografiche delle peripezie del giovane Kim partendo da Lahore, oggi in Pakistan, e proseguendo per Simla, Umballa, Varanasi e Delhi, percorrendo la Grand Trunk Road. Del resto Hopkirk confessa a un certo punto di essere così tanto influenzato nella sua vita dalle pagine di Kim da aver avuto “voglia di scoprire tutto ciò che era possibile su quel libro, i personaggi, i luoghi e sulle circostanze che avevano portato l’autore a scriverlo”.
E così Hopkirk parte sulle Tracce di Kim scrivendo un libro che, siamo onesti, se prima (o dopo, ma decisamente meglio prima ) non si è letto o riletto Kim, non ha molto senso leggere, tanto è ancorato a quelle pagine e quelle sensazioni. Ma se invece si è stati discreti ammiratori di quel giovane discolo che è Kim, affascinati da quelle atmosfere coloniali che tornano in tanti romanzi britannici che quando li leggi ti viene voglia di partire per andare a vedere le tracce gonfie di umidità di quel periodo duro e fecondo, in tal caso questo è un gran bel libro, di quelli da non perdere.
SULLE TRACCE DI KIM. Il grande gioco nell’India di Kipling
di Peter Hopkirk
Edizioni Settecolori, pag. 282, 26 €