Quando arrivi sull’isola di Shikoku, in Giappone, può capitare di imbattersi in personaggi strani, vestiti di bianco. Indossano un cappello di bambù che sembra un portafrutta rovesciato, la bisaccia in spalla. Camminano con passo deciso, spesso hanno un bastone in mano, sempre silenziosi, discreti, intabarrati nelle loro candide vesti. Sembrano usciti da un fumetto, o da un film. Se incontri il loro sguardo sorridono gentili e continuano a camminare. Sono henro-san, come si chiamano in giapponese i pellegrini di Shikoku, intenti a percorrere una parte del pellegrinaggio degli 88 templi che attraversa la più rurale tra le quattro grandi isole che compongono l’arcipelago giapponese.

 
IL PELLEGRINAGGIO DEGLI 88 TEMPLI
Un percorso che ha oltre mille duecento anni di storia: ripercorre le gesta del venerabile maestro Kōbō Daishi, monaco originario dell’isola che nell’VIII secolo fondò la setta degli Shingon, una forma di buddhismo assai concreto che oggi rappresenta una delle maggiori scuole del buddhismo giapponese. Talmente importante che negli anni è iniziato un pellegrinaggio sempre più fitto nei luoghi in cui il santo monaco nacque.

Un pellegrinaggio particolare, forse l’unico al mondo a non avere un inizio e una fine. Per convenzione c’è un tempio numero uno – Ryozen-ji, la montagna sacra, non distante da Tokushima – e un numero 88, sempre nei dintorni di Tokushima. In mezzo 1.400 chilometri di sentieri che più o meno seguono la costa e che andrebbero raggiunti uno dopo l’altro in senso orario. Ma appunto, è una convenzione. Del resto il buddhismo è circolare per definizione e la cosa non sorprende affatto.


 
Anzi, a ben vedere ha anche una sua certa poeticità: volendo quello di Shikoku potrebbe essere un cammino eterno, come la ricerca dell’illuminazione, che non dovrebbe aver mai fine e si dovrebbe protrarre nei cicli delle reincarnazioni. Anche se poi questa variante giapponese del Buddhismo di Kōbō Daishi crede che ognuno, in vita, possa diventare l’illuminato.

Ma queste sono disquisizioni teologiche che poco interessano a chi si mette in cammino. Quel che conta è andare. Andare e pregare per l’anima dei cari defunti, o per alleviare le proprie pene in vita. Andare e nel mentre, perché no, scoprire l’isola di Shikoku con le sue montagne verdi, i campi di riso che si incuneano nel cemento delle città, le spiagge sul Seto, il trafficato mare interno del Giappone.

L’ECCENTRICO TEMPIO DI MATSUYAMA
Intorno a Matsuyama, la bella capitale di una delle 4 prefetture dell’isola di Shikoku, quella di Ehime, si trovano ben otto degli 88 templi del percorso. Tra questi il numero 51, Ishite-ji, è di sicuro il più vissuto e frequentato di tutti. Un luogo inusuale, forse anche kitsch rispetto agli altri templi, più austeri e compassati. Qui la gloria di Kōbō Daishi è celebrata da una serie di statue e tunnel illuminati da luci stroboscopiche che si accendono al passaggio, mentre ci si addentra in una specie di caverna che rimbomba di mantra, al punto che tutto sembra un po’ un rave esoterico, piuttosto che un luogo di preghiera.

Eppure, nonostante l’innegabile bizzarria, l’Ishite-ji è il luogo che pare più vivo e vissuto tra tutti i templi che fanno parte di questo storico pellegrinaggio. E poi si trova nel centro di Matsuyama, non distante dalle Dogo Onsen, le terme più antiche di tutto il Paese, la cui struttura in legno è stata costruita nel 1894.

RELIGIONE LIGHT
Negli altri 87 templi del percorso si respira un’atmosfera diversa. Del resto a percorrerlo davvero a piedi sono in pochi. I più prendono la macchina, il pellegrinaggio in Giappone non è di gran moda. Non certo come il Camino che porta a Santiago de Compostela con i suoi numeri sempre crescenti e l’attrazione tra i giovani. Il pellegrinaggio degli 88 templi sembra più che altro un’esperienza per anziani, gli unici forse ad avere il tempo, ma non la forza, per completare il percorso. E infatti coprono le tappe comodamente seduti in auto.

Sostano nel parcheggio, si rifocillano ed entrano, genuflettendosi all’ingresso in modo aggraziato e scenografico tra le due statue di demoni che sorvegliano la porta di pietra. All’interno trascorrono il tempo che serve per fare le abluzioni rituali, accendere gli incensi, deporre un foglietto con un desiderio (senza dimenticare di segnare l’indirizzo, non si sa mai), fare una donazione e recitare a mani giunte un sutra per rammentarsi della vanità della vita. Vanità che viene combattuta anche facendosi apporre un timbro e un arzigogolato tratto di pennello sul quaderno che funge da credenziale, come per il Cammino di Santiago.

Per il resto l’impressione che si ha visitandone alcuni – il numero 75, Zentsu-ji, costruito laddove c’era la casa di Kōbō Daishi è tra i più belli e complessi, gli altri sono assai semplici – è che siano vuoti. Belli esteticamente, meravigliosamente tenuti, ma vuoti. Lo sviluppo del dopoguerra li ha svuotati. La religione è un fatto personale – si prega, se si prega, in casa –, non un rito collettivo: l’unico rito collettivo rimasto al Giappone, oltre allo shopping, sembra essere la primaverile adorazione dei ciliegi in fiore o quella delle foglie d'acero rosse in autunno.