Il prezzo del caffè è un problema, ma non solo per noi italiani. Recentemente anche in Cina, Paese del tè che da qualche anno sta iniziando ad avere una cultura del caffè, sono scoppiate grandi polemiche sul prezzo elevato di una tazza. E come spesso avviene da queste parti l'attacco è stato in grande stile.
Qualche settimana fa il telegiornale della Cctv, la televisione pubblica cinese, ha criticato Starbucks (la più grande catena al mondo di caffetterie, assente in Italia) per il prezzo dei suoi caffé che sarebbe più caro in Cina di quanto non sia negli Stati Uniti. Un caffè latte infatti in uno dei quasi mille Starbuck presenti in Cina costa 27 yuen (poco più di tre euro), circa il 30 per cento in più che se comprato in un negozio della stessa catena a Chicago. «Starbucks si arricchisce alle spalle dei cinesi» era il sottotesto neanche tanto velato del servizio della Cctv. La multinazionale americana si è prontamente difesa spiegando urbi et orbi che i costi operativi in Cina sono alti e l'importazione di chicchi di caffé è sottoposta a un'alta tassazione (il 15 per cento) anche perché è ancora considerato un genere di lusso. Per cui il prezzo alto sarebbe giustificato. E tutto sommato in linea con il prezzo (sempre alto) praticato delle altre grandi catene presente nel Paese (dagli inglesi Costa coffee a Ucc coffee di Singapore).

Un prezzo elevato che però non frena lo sviluppo della cultura del caffé in Cina. Il mercato è cresciuto del 90% tra il 2007 e il 2012, ma nonostante questo i cinesi consumano ancora una media di tre tazzine di caffè l'anno contro le oltre 600 dei francesi. Eppure a Pechino i negozi della catena Starbucks e degli altri rivenditori (sono presenti, anche se in misura minore marchi italiani come Lavazza Espression e Illy, con Espressamente) sono sempre pieni. Forse perché in questi posti il caffè come lo intendiamo noi è in fin dei conti secondario. Il caffè nero, americano o espresso che sia, è l'ultimo dei motivi per cui i cinesi vanno in una caffetteria. Basta passare un'ora in uno degli onnipresenti Starbucks di Pechino per rendersene conto. Ci si va per lavorare al computer, per fare riunioni di lavoro, per mangiare un dolce, un sandwich o qualunque altra cosa non sia un raviolo al vapore o una zuppa di spaghetti. Ci si va perché uno status symbol, ma soprattutto perché è un buon posto – pulito, comodo, confortevole – dove passare il tempo in una città che non è né comoda né confortevole.

Ma il problema per noi italiani è diverso: a ben vedere secondo i nostri elevati standard neanche quello di Starbucks è caffè, anche se non è tra i peggiori che si possono trovare a Pechino. Basta entrare in uno qualunque delle decine di piccoli bar molto hipster che hanno aperto nella zona di Guluo (la zona di Hutong che sorge intorno alla torre del tamburo e al lago di Whohai) per rendersi conto che l'arte di preparare un buon caffè non è ancora arrivata in Cina. E il prezzo equo neanche, visto che costa in media almeno 30/35 yuen (3,5/4 euro). Sarà forse per questo che la metà dei bar è perennemente desolatamente vuota? Qualcuno per attirare espatriati e turisti ha pensato di popolare i caffè con socievoli gatti che riposano sui divani e si fanno dare una grattatina inclusa nel prezzo assieme al wifi. Gli altri rimangano senza clienti. Così due indirizzi buoni per assaggiare un caffè rispettabile a un prezzo quasi equo sono Aperitivo (43 Sanlitun Beijie Nanlu), nella zona più frequentata dagli espatriati occidentali, Sanlitun. Un bar aperto da un veneto che oltre ad aver importato lo spritz ha insegnato ai suoi dipendenti a fare un buon caffè per 20 yuen (2,40 euro). E poi un piccolo bar, il Beiluo Bread Bar, gestito da un tedesco nella zona di Guluo (70A Beiluogu Xiang), dove un espresso costa 18 yuen (2 euro). Perché alla fine aveva ragione quella pubblicità di qualche anno fa: «Il caffè è un piacere, e se non è buono che piacere è?».