Per tutto ottobre 2020, il sito del Touring Club Italiano - in collaborazione con Hertz - segue il Giro d'Italia edizione numero 103 (Monreale, 3 ottobre - Milano, 25 ottobre). A raccontarci le tante storie del Giro d'Italia 2020 è Gino Cervi, scrittore e giornalista, nonché cultore di storia del ciclismo, curatore di guide turistiche Tci e autore di volumi di storia dello sport (tra cui il recente "Il Giro dei Giri"). Seguiteci lungo le strade del nostro Bel Paese! A questa pagina trovate tutte le puntate.
 

Domenica scorsa, nella tappa che arrivava a Piancavallo, giù dal passo di Monte Rest sono passato dalla val Tramontina: Tramonti di Sopra e Tramonti di Sotto (a metà, ovviamente, c’era anche Tramonti di Mezzo). Ho pensato che, dal momento che, sabato 24 ottobre, il Giro avrebbe ripreso il suo... giro da Alba, la settimana avrebbe corso il rischio di essere, da Tramonti ad Alba, una lunga notte. Non è stato, per fortuna, così. 
Il Giro d'Italia, tappa 19 - foto LaPresse​

Il buio, sul Giro, però è calato ieri mattina, alla partenza da Morbegno. Un’improvvisa, e forse improvvisata, protesta dei corridori – o solo di una parte dei corridori, non si è capito bene – ha fatto “saltare” gran parte della terzultima tappa che, dalla bassa Valtellina arrivava ad Asti. Era una mattina di pioggia battente di fine ottobre, come prevedibile che ce ne fossero in questa stagione – questo Giro autunnale è già stato incredibilmente favorito dal dio delle nuvole e della pioggia – e neppure particolarmente fredda. Vero, ci si arrivava dopo oltre 3000 km percorsi e corsi; dopo giorni di tensione e timore per l’assedio del Covid19, che era riuscito a penetrare nella “bolla del Giro” e a colpire qualche bersaglio; forse anche dopo un malcelato senso di sospetti reciproci tra squadre e organizzazione della corsa su come è stata gestita questa avventura che tuttavia, fin da quando è stata annunciata, la primavera scorsa, aveva evidenti tutte le caratteristiche di una sfida portata al limite della sua realizzabilità. Precarietà e tensioni acuite dalla recrudescenza, forse questa non del tutto prevedibile, della pandemia. 
 


Il Giro d'Italia, tappa 19 - foto LaPresse​
 
Insomma, le condizioni in cui sta arrivando a conclusione questo Giro non sono certo delle più rilassate. La scelta di parte dei ciclisti di rifiutarsi di correre tutti 253 km della 19a tappa – diventati qualcuno di più a causa di una deviazione resa necessaria da problemi di viabilità dell’ultimo momento – è stata la miccia che ha fatto deflagrare un’atmosfera già densa di elettricità. Dopo un braccio di ferro, i ciclisti hanno ottenuto di dimezzare la corsa e di spostare di oltre 100 km e ritardare la partenza di tre ore. Il tracciato per metà è stato cancellato: i corridori sono stati trasportati dai pullman o dalle ammiraglie e sono rimontati in sella ad Abbiategrasso. La corsa è durata solo 120 km. La pioggia nel frattempo ha quasi smesso di cadere, la giornata non è stata più fredda di una giornata normale autunnale e in molti si sono chiesti che diritto avevano i corridori, o meglio i lavoratori ciclisti, di costringere l’organizzazione a passare un colpo di spugna su chilometri e chilometri di percorso, che significavano, a loro volta, e per molti, lavoro, investimento, attesa. 


Il Giro d'Italia, tappa 19 - la Maglia Rosa entra in auto dopo la decisione di annullare i primi 100 km - foto LaPresse​

Il Giro d’Italia non è semplicemente una corsa. Come tutti gli eventi sportivi, e a maggior ragione come tutti gli eventi sportivi che si svolgono “on the road”, è una complessa macchina, anche economica, di lunga pianificazione, di accordi, di contratti con le amministrazioni dei territori attraversati. Il “colpo di mano” di Morbegno è stato un insulto inferto non soltanto all’organizzazione del Giro, ma a tutto il sistema che vi ruota intorno: dagli spettatori agli sponsor, ai media. Quello che tuttavia ne è derivato ha svelato una dimensione sulla quale è bene che tutti si rifletta. Gli “scioperi” per definizione hanno obiettivi da colpire e non sono mai gratuiti, né in un senso, né nell’altro. Definirli atti irresponsabili a priori, e stigmatizzarli come indebito e insostenibile “affronto al sistema”, rivela purtroppo come ormai il tessuto della dialettica nel mondo del lavoro si sia talmente logorato, al punto che gli stessi lavoratori, in questo caso i ciclisti, hanno sbagliato tempi, modi e forse anche strumenti – i rappresentanti, i delegati di categoria – per far valere le proprie legittime rivendicazioni. E che la controparte – un vasto fronte che annovera i rappresentanti dell’organizzazione, la stragrande maggioranza dei media, il popolo dei tifosi che ora si rivolta contro i protagonisti dello spettacolo che gli è stato sottratto – si arrocca dietro a un “pensiero unico dominante”. Accusare variamente la categoria dei ciclisti di ingratitudine, di insensibilità, di mollezza atletica e morale. 

La riflessione a cui tutti si deve essere chiamati è che lo sport inteso come show-business, inevitabilmente sempre meno sport e sempre più business, necessita di riacquistare un altro, e meglio definito, scenario di confronto tra le parti in gioco, per non di dover incorrere ad azioni, come quella di ieri, con tempistiche e modalità che inevitabilmente prestano il fianco a facili stigmatizzazioni. I lavoratori ciclisti hanno il bisogno di essere rappresentati da figure di diverso spessore e competenza: con la morte nel cuore, per quanto l'ho amato come amletico campione della mia gioventù tifosa, Gianni Bugno, presidente del CPA, il “sindacato” internazionale dei ciclisti professionisti, in questo Giro ha rivestito lo scomodo, e credo incompatibile con la sua funzione istituzionale, di ruolo di commentatore tecnico per la RAI. Dall’altro lato ci si è disabituati, e non per colpa del ciclismo, che il “mestiere del ciclista” è comunque il centro imprescindibile della grande giostra di entertainment e commerciale: e senza i ciclisti niente ha più senso. Riconsiderare dunque spazi e tempi della sceneggiatura che gli attori devono intepretare, in primo luogo come atleti: è un discorso che si apre ai calendari di tutto l’anno, e non solo all’articolazione dei tracciati dei grandi giri, con luoghi di partenza ormai sempre disgiunti, e spesso geograficamente distanti, da quelli di arrivo per evidenti motivi di convenienza economica. Ieri, dunque, è stato un brutto giorno di questo bel Giro: ma potrebbe essere utile ricominciare dalla pioggia (tiepida) di Morbegno per riaffrontare il tema di cosa significa fare il corridore ciclista all’inizio del terzo decennio del terzo millennio, un mestiere che non può essere uguale a quello di Eberardo Pavesi, ma neppure a quelli Coppi e Bartali, di Gaul e Nencini, di Merckx e Hinault, e neppure a quello del Van de Velde congelato sul Gavia.


Il Giro d'Italia, tappa 19 - foto LaPresse​
 

Meno male che ci sono storie da raccontare, anche in una tappa come quella di ieri. 6 marzo 1865, a Masio, provincia di Alessandria, sul limitare del Monferrato, ma a 30 km da Asti, nasce Eliso Rivera3 aprile 1896, a Milano, viene stampato il primo numero de “La Gazzetta dello Sport”. È un bisettimanale – esce di lunedì e di venerdì – , costa 5 centesimi la copia e nasce dalla fusione di due altri giornali: “Il Ciclista”, fondato a Milano da Eliso Rivera, e “La Tripletta”, fondata a Torino da Eugenio Camillo Costamagna: Rivera e Costamagna assumono, in condivisione, la direzione del giornale. 13 maggio 1909, ancora a Milano, prende il via il primo Giro ciclistico d’Italia: lo organizza proprio “La Gazzetta dello Sport”. Eliso Rivera aveva lasciato il giornale undici anni prima, nel 1898. Si era schierato a favore le rivolte popolari che tra il 6 e il 9 maggio erano scese in piazza contro la decisione del governo di aumentare il prezzo del pane: sospettato di avere simpatie anarchiche, Rivera dovette abbandonare il giornale.

Possiamo quindi dire che a Masio, poco meno di 1400 abitanti distribuiti in 22 km2 circa di superficie, si trovano le più antiche radici del Giro d’Italia. Anche in questa tappa strana, scorciata dalla protesta dei ciclisti alla partenza, non si poteva rinunciare a una sosta ad Abazia, la frazione di Masio, non molto lontano dal castello di Monvicino dove, figlio di un contadino, nel 1865 nacque Eliso Rivera, che amava firmarsi con uno pseudonimo, Eliso delle Roncaglie (spesso abbreviato nella sigla EDR), da un nome di una borgata del suo paese d’origine. Sportsman – è tra i primi a cimentarsi in gare di velocipede, quando Alessandria era la capitale del nascente sport – , intraprendente pubblicista, volitivo militante politico di vocazione democratica – fonda a Masio una Società operaia di Mutuo Soccorso, poi dirigente dell’Unione velocipedistica italiana e agguerrito avvocato, Rivera tra le due guerra lascia l’Italia per emigrare in Argentina. Anche qui si dedica anima e corpo all’attività giornalistica, fondando e dirigendo a Buenos Aires per dieci anni, fino al 1930, la “Gazzetta degli Italiani”. Tornato al paese natale, muore nel 1935. Ma chi vuol sapere tutto, ma proprio tutto della movimentata vita di Eliso Rivera, può leggere, come se fosse un avvincente romanzo, la biografia che ha scritto su di lui Claudio Gregori, straordinario fabulatore di sport, nonché storica firma della “Gazzetta”, pubblicata nel 2018 dal Comune di Masio.                                     


Il Giro d'Italia, tappa 19 -Masio, la Società Cooperativa di Mutuo Soccorso - foto Cervi
A una storia del passato, si aggiunge una del futuro. Quella di Ri.Ciclo srl, una startup di giovani imprenditori astigiani, che ha brevettato Ciclò, un’installazione agile e poco invasiva pensata per riconvertire, senza grandi e dispendiose opere di dismissione strutturale, i binari delle vecchie linee ferroviarie abbandonate, per trasformarle in ciclovie. Un’installazione realizzata con materiali riciclati (il fondo con la frantumazione delle gomma di pneumatici usati) e concepita a moduli di facile installazione. A occhio sembra l’uovo di Colombo: solo nella provincia di Asti consentirebbe di recuperare numerosi assi viari per una mobilità alternativa e per valorizzare territori divenuti marginali ma che potenzialmente sono mete di un nuovo turismo slow e attento alla sostenibilità. Stamattina, i poco più di trenta chilometri da Asti ad Alba per la partenza della penultima tappa si sarebbero potuti coprire sulla vecchia tratta ferroviaria dismessa grazie a Ciclò. Un progetto che merita di trovare la sua “strada” in un prossimo felice futuro.
Quanto alla corsa, ad Asti si è imposto non un Diavolo rosso, ma un arancione. Ha vinto con un bello spunto solitario nel finale il ceco Josef Cerny. Siccome basta un cambio di consonante e siamo parenti, tagliato il traguardo Josef ha dimenticato la strada – e la tappa dimezzata - e si è seduto con noi a bere, ovviamente, un’aranciata. Contro luce tutto il Giro se ne va.
Il Giro d'Italia, tappa 19 - l'arrivo di Cerny ad Asti - foto LaPresse​

 

Il "Giro del Touring" è realizzato in collaborazione con Hertz, partner storico dell'associazione, che ha messo a disposizione di Gino Cervi una vettura per seguire le tappe della Corsa Rosa. 
 
Si ringraziano per il sostegno al progetto anche AcdB Museo-Alessandria Città delle Biciclette e Terre di Ger.

In occasione del Giro d'Italia, per tutto il mese di ottobre il volume Touring "Il Giro dei Giri" è scontato del 40% per i soci Touring