Quando viaggiare non è un’opzione praticabile per i motivi che tutti sappiamo ed è giusto fermarsi e stare in casa finché l’onda non sarà passata. E dalla poltrona del salotto, dalla sedia in balcone, dal comodo del proprio divano si può comunque continuare a muoversi con la mente mettendo in pratica quello che i britannici chiamano “armchair travel”, ovvero la lettura di libri di viaggio. Reportage che permettono una innocente evasione in compagnia di chi è partito per saziare la sua curiosità o lo spirito d’avventura ed è tornato per raccontarlo. Racconti di prima mano di mondi lontani e diversi, esperienze ricche di passione, empatia e divertimento spesso in zone periferiche che magari mai visiterete, ma che stuzzicano fantasia e voglia di scoprire. E poi, chi lo sa, non è detto che a emergenza finita, non si decida di partire con un libro sotto braccio per visitare i luoghi di cui si è letto in questi giorni...
Ecco la ventitreesima tappa.
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Nella Kolyma l'inverno dura nove mesi, il resto è estate. Tre mesi in cui se scavi un metro sotto terra trovi il permafrost. Novanta giorni in cui la terra si scioglie e diventa palude, l'ambiente naturale passa da assurdo e inospitale a semplicemente pessimo. È in un posto così sinistro, lontano, deserto eppure soffocante, che è andato a curiosare il giornalista polacco Jacek Hugo-Bader per scrivere i suoi I Diari della Kolyma, un viaggio nella terra dei gulag ai confini della Russia profonda (traduzione di Marco Vanchetti, Keller editore, pag. 350, 18 € ).
Secondo la vulgata il sessantenne reporter polacco sarebbe l'erede naturale di Ryszard Kapuściński, che poi è quel che si dice di qualsiasi giornalista polacco che racconti il mondo e sono davvero tanti vista la tradizione nel campo del giornalismo narrativo della Polonia. Sarà anche così, forse, di certo è un ottimo giornalista con il gusto per l'avventura nelle terre estreme della Russia e una apprezzabile capacità di empatizzare con il prossimo, specie se è l'ultimo ha un bel volto da camionista, da cercatore d'oro o da custode di una storia. Hugo-Bader non è certo nuovo a queste imprese: nel suo precedente libro, Febbre Bianca, aveva attraversato tutta la Siberia a bordo di una UAZ-469 4x4. Da solo e in inverno. Questa volta ha percorso i 2.025 chilometri della strada della Kolyma, ovvero la strada costruita metro dopo metro dai prigionieri dei gulag, facendo autostop, perché qui nessuno rifiuta un passaggio a un solitario lungo la strada. Intorno ci sono pericoli a ogni passo: banditi, gelo, orsi che arrivano la notte.
Hugo-Bader aveva in mente di percorrerla in motocicletta, ma non è neanche riuscito a partire. Così ha dovuto fare affidamento sul buon cuore dei 150mila abitanti rimasti dopo la caduta dell'Unione Sovietica, divisi in cinquanta insediamenti sparsi lungo l'autostrada, l'unica via di comunicazione terrestre di tutta la regione. La via che va da Magdan a Jakustsk, in Jacuzia, quella che al Risiko sta tra la Kamkatcha e Cita. Un posto, la Kolyma, che per i suoi abitanti è ancora un'isola: il resto della Russia è la terraferma. Normale, visto che fino a qualche anno fa, prima che i prigionieri scavassero la strada, ci si arrivava solo in nave.
Ma perché proprio lì? «Ho deciso di andare nella Kolyma per vedere come si vive in quel posto, in quel cimitero. Si può ridere, amare, gridare di gioia qui?» spiega Hugo-Bader. «Sono nato in Polonia dopo la guerra, e mi sono sempre chiesto come le persone che risiedevano accanto ai lager nazisti potessero viverci. Che poi è quello che si chiedono tutti gli ebrei israeliani di chi vive in Polonia». Ed è quello che ha cercato di capire intraprendendo questo viaggio nelle terre del più grande incubo del ventesimo secolo, il terrore stalinista. Nella regione della Kolyma che oggi fa parte dell'oblast di Magdan c'erano tra i 125 e i 160 campi, nessuno sa davvero quanti fossero. Si dice che potevano concentrare circa 200mila persone alla volte, furono aperti dal 1917 agli anni Sessanta, e vi morirono circa tre milioni di persone. Solo qui, solo in questa immensa distesa di freddo grande quanto la Francia.
Sono i campi descritti da Varlam Salamov ne I racconti della Kolyma, il libro con cui lo scrittore russo – internato per decenni – ha raccontato la vera vita del gulag. Libro che ha costituto in breviario per Hugo-Bader durante il suo viaggio, durante il quale si è imbattuto in decine e ex deportati. «Si dice che la metà degli abitanti della Kolyma sia discendente degli zek, gli ex prigionieri dei lager sovietici» scrive. La maggioranza era finita qui perché era incappata nel decimo paragrafo dell'articolo 58 del codice penale sovietico: attività antisovietica, abbreviato, «Asa». Bastava raccontare una barzelletta antisovietica e si veniva condannati: si diventava nemici del popolo in base un articolo scritto di suo pugno dallo stesso Lenin. Davanti si apriva il baratro di quello che Aleksandr Solženicyn ha definito «l'ultimo cerchio del sistema». Qui i prigionieri venivano sfruttati come schiavi nelle miniere d'oro, d'uranio, d'argento (vi si trova il più grande giacimento del mondo) e di tutti i materiali preziosi di cui abbonda il sottosuolo. Miniere che costituiscono ancora la ricchezza di questa terra. «In questa regione vive solo chi lavora nel settore estrattivo. Lo stato cerca di far trasferire da lì gli altri, perché non è conveniente che abitino laggiù persone che non devono per forza viverci». Ai tempi dell’Urss in quell’enorme territorio esistevano solo due categorie di persone: prigionieri e guardie». E ancora oggi sopravvivere è difficile, la maggioranza ce la fa solo bevendo.
«Non è certamente un segreto che i russi bevano moltissimo, è un loro grosso problema, il dramma di un popolo, una vera minaccia» spiega il giornalista polacco che a fine libro confessa di aver preso 19 pesanti bisbocce in 36 giorni di viaggio. «Nella Kolyma la causa di questo abuso sono le giornate cortissime in inverno, il clima infernale, le gelate, e l’ospitalità, famosa in tutto il mondo, dei russi, che accolgono l’ospite come meglio possono. In più la tradizione impone di fare brindisi e di bere fino in fondo, perciò tutti tranne le donne, cui è concesso di bere un poco meno, bevono esattamente allo stesso modo». Tanto. Bevono vodka, ma all'occorrenza non disdegnano di trincarsi il liquido delle batterie, il liquore dell'autostrada, specie quando fuori la temperatura si approssima ai meno 50 gradi. E forse bere serve anche dimenticare i milioni di morti incastrati nel permafrost.
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