Quando viaggiare non è un’opzione praticabile per i motivi che tutti sappiamo ed è giusto fermarsi e stare in casa finché l’onda non sarà passata. E dalla poltrona del salotto, dalla sedia in balcone, dal comodo del proprio divano si può comunque continuare a muoversi con la mente mettendo in pratica quello che i britannici chiamano “armchair travel”, ovvero la lettura di libri di viaggio. Reportage che permettono una innocente evasione in compagnia di chi è partito per saziare la sua curiosità o lo spirito d’avventura ed è tornato per raccontarlo. Racconti di prima mano di mondi lontani e diversi, esperienze ricche di passione, empatia e divertimento spesso in zone periferiche che magari mai visiterete, ma che stuzzicano fantasia e voglia di scoprire. E poi, chi lo sa, non è detto che a emergenza finita, non si decida di partire con un libro sotto braccio per visitare i luoghi di cui si è letto in questi giorni…
Ecco la ventiseisima tappa.
C’è del selvaggio in Gran Bretagna. E anche in Italia, in Germania e in ogni Paese di questa terra che sia ipertrofico come il nostro. C’è incredibilmente del selvaggio in ogni territorio troppo costruito, troppo densamente abitato, troppo cementificato. E non è che sia scontato, anzi: si direbbe proprio l’opposto. Perché sono anni ormai che le campane suonano a morto per il paesaggio, e in effetti basta buttare l’occhio fuori dalla maggioranza delle nostre finestre per costatare la vittoria dell’asfalto e del cemento, della natura antropizzata, dei campi industrializzati. Non solo, praticamente a qualunque latitudine eccetto forse i poli non esistono più valli o isole o selve che non siano state visitate, lavorate, abitate. Eppure c’è del selvaggio in Gran Bretagna e ovunque nel mondo, perché «umano e selvaggio sono indivisibili».
 Lo sostiene Robert Macfarlane, inglese, docente di letteratura a Cambridge, grande amante della montagna – aveva scritto Montagne della mente, una saggio sulla passione per le vette recentemente ripubblicato da Einaudi – e del cammino, in Luoghi Selvaggi (Einaudi) un viaggio a piedi tra isole, vette, brughiere e foreste. Un bel libro, denso di riflessioni personali, citazioni letterarie, riferimenti dotti, forse alle volte troppo dotti, ma si riesce comunque ad andare oltre senza sentirsi in colpa e in difetto.
Un libro in cui, riducendola all’osso, la tesi di Macfarlane è che a dispetto delle devastazioni subite la natura regna ancora sovrana in gran parte del pianeta e anzi, rinasce e riprende posizione con una insospettata capacità di rendere selvatico quel che selvatico oggettivamente non è più. Selvatico, e non selvaggio: perché anche se la traduzione del titolo “luoghi selvaggi” potrebbe indurre in fraintendimento, Macfarlane parla di luoghi selvatici. Ovvero, stando alla Treccani, di un terreno ricoperto da piante selvatiche, non coltivate che per estensione talora diviene solitario, abbandonato, deserto.
Per dimostrarlo, ma forse sarebbe meglio dire per raccontarlo, parte a piedi esplorando la Gran Bretagna disegnando a parole una cartografia dei luoghi e dei paesaggi dove ambiente naturale e umano sembrano esser parte della stessa grande storia in perpetuo divenire. Luoghi e spazi per forza di cose limitati e liminali, perché è assolutamente vero che ormai nei nostri Paesi industrializzati l’idea di spazio e di lontananza sembra sparita: e gli agenti di questa sparizione sono state l’automobile e le strade asfaltate.

Così spiega Macfarlane nel Regno Unito è quasi impossibile trovarsi a più di 5 chilometri da una superficie carrozzabile. Il che, per logica, sembrerebbe escludere ogni spazio di possibile selvaticità, eppure secondo Macfarlane esiste un mondo selvaggio “sepolto in mezzo a paesaggi familiari e a portata di mano”. Si trova sul ciglio delle strade, nelle siepi dietro casa, al limitare dei campi, nei sottoboschi attraversati da una lunga rete di antichi sentieri, lungo spiagge che scompaiono con le maree, sulle creste di montagne che per giunta in Gran Bretagna non sono mai altissime.

Certo, forse non è quella wildness sterminata del Canada o della Siberia, quella in cui si beava Thoreau o le terre estreme di Christopher Johnson McCandless, e nemmeno quelle che l'autore sognava da piccolo quando «fantasticavo di spazi vasti, remoti, senza contorni. Isole solitarie, altipiani deserti, chilometri e chilometri senza segnali apparenti del passaggio dell’uomo. Posti che sembrano fuori dalla storia umana».

Eppure quasi luoghi selvaggi esistono, percorrerli ristora il corpo e la mente. Ed è un bene sapere che esistono. Perché mai come in questo periodo chiunque abiti in una città avrà ben presente quella sensazione di esserci stato per troppo tempo. E sapere che là fuori, oltre la siepe, oltre l'ennesima strada c’è un inaspettato luogo selvaggio da scoprire è già un bel respiro di sollievo.
 

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