In queste ore, buona parte delle cronache internazionali sono dedicate all’emergenza sanitaria cinese, nata con ogni probabilità all’interno del mercato di Wuhan, città di 11 milioni di abitanti, capoluogo della provincia di Hubei a est del Paese. Sono oltre 800 finora i contagiati dal coronavirus 2019-nCoV e una trentina le vittime.
 
La memoria corre al novembre 2002 quando a Foshan, città della provincia di Guandong nel sud della Cina, ci fu un’epidemia – Severe acute respiratory syndrome, più nota come Sars – originata da un altro coronavirus. In quel caso i contagiati furono più di 8mila e i decessi circa 800. I Paesi più colpiti furono Cina, Hong Kong, Taiwan, Canada e Singapore: passarono diversi mesi prima che l’Oms dichiarò, nel luglio 2003, finalmente sotto controllo i focolai del virus.


 

Quell’evento, che mediaticamente ebbe grande rilievo ma che riguardò fortunatamente un numero esiguo di persone se si tiene in considerazione la popolazione complessiva interessata, determinò però un impatto di breve periodo molto forte sui flussi turistici: alla fine del 2003, infatti, la macro regione Asia e Pacifico registrò circa 119 milioni di turisti stranieri, con un calo del 9% rispetto al 2002. Ciò significò una perdita netta di circa 10 milioni di viaggiatori.
 
La Cina segnò una diminuzione del 10%, Taiwan del 24%, Singapore del 18% e Hong Kong del 6%. Negli anni immediatamente successivi i flussi ripresero a crescere a ritmi costanti – gli effetti dell’epidemia sull’economia turistica si esaurirono in fretta – tanto che nel 2019 Asia e Pacifico hanno registrato quasi 364 milioni di viaggiatori incoming, il triplo rispetto al 2003. È chiaro, dunque, il rischio concreto che il turismo in quell’area potrebbe correre nei prossimi mesi qualora l’allarme sul virus non dovesse rientrare a breve.