L’unica cosa che non cambiava era la barba, perché quella già c’era, lunga e indisciplinata come si usava all’epoca. Per il resto dopo un Viaggio all’Eden cambiava tutto. Si tornava – se si tornava – smagriti, sfatti e allucinati, insomma diversi. Si partiva da Milano, da Roma, dall’Europa intera per arrivare, ovviamente via terra, fino a dove oggi non è più possibile arrivare: Kabul, Delhi, l’India. Ma per tutti la destinazione ultima era Kathmandu, allora città-palazzo capitale di un regno fortemente tradizionalista che si raggiungeva dopo mesi mesi di strade e di polvere.
Lo racconta Emanuele Giordana, geografo di formazione e giornalista esperto di Asia Centrale, che 40 anni dopo aver viaggiato per sei mesi da Milano al Nepal ha riesumato il suo libretto degli appunti e ha raccontato il suo «Viaggio all’Eden» – dal titolo della prima guida dedicata, del ’73, curata da Marco Amante e Lugi Buffarini – in un volume edito da Laterza (pag. 116, 16€).
GLI INIZI
«Difficile dire chi sia stato il primo ad aprire questa rotta» spiega Giordana. «I Beatles sono stati i più famosi ad aver fatto il viaggio a Oriente, in India. Ma prima di loro in tanti si erano già messi in cammino. Del resto quella che parte da Istanbul e attraverso il Medio Oriente passando per l’Afghanistan e poi scende in India è stata una rotta percorsa per secoli da commercianti e semplici viaggiatori, una via che non si era mai interrotta. Solo che piano piano sono spuntati questi giovani viaggiatori e agli inizi degli anni Settanta diventa un’esperienza di massa».
Un’esperienza generazionale che in piena contestazione coinvolgeva i ventenni di tutta Europa: «C’erano inglesi, francesi, piccoli gruppo di scandinavi, svizzeri e tanti italiani che venivano certo dalla città, in maggioranza, ma anche dai piccoli centri». Ragazzi politicamente consapevoli, schierati a sinistra ma rosi dal tarlo della strada, conoscitori del Capitale ma cresciuti con "Sulla Strada" e "Siddartha" in tasca. «Eravamo malati, come no. Bruciati dalla passione per quel treno che proveniva da Parigi, diretto a Istanbul» scrive Giordana nell'introduzione. Istanbul, la Porta d'Oro aperta sull'avventura.
NON DIRLO A MAMMA....
Si partiva senza dire nulla a casa. «C’era chi diceva che sarebbe andato in Jugoslavia, chi che si sarebbe spinto fino a Istanbul…» Pochi dicevano tutto ai genitori, lui era tra quelli. «Mia madre sapeva dove stavo andando, del resto l’anno precedente avevo avuto il mio battesimo del viaggio in Sudamerica, era il 1973, da dove tornammo senza un soldo e con un passaggio in nave pagato dal consolato di Rio de Janeiro, come accadeva agli emigranti poveri che venivano aiutati a tornare in patria dalle autorità».
Lo stesso non succedeva in India. «Eravamo in troppi: le ambasciate e i consolati erano pieni di questa gente rimasta senza un soldo e senza passaporto che chiedeva di essere spedita a casa. A qualcuno davano dei soldi e un tragitto con tappe obbligata per tornare a casa». Anche quello – assieme a una quantità non indifferenze di sostanze stupefacenti assortiti, un gran senso di libertà e una gran voglia di scoperta – era parte dell’esperienza. Anche se – incredibile a dirsi – non per tutti era il viaggio della vita. «No, no. C’era chi trovava quei posti orribili, eccessivi, e dopo due mesi tornava indietro».
LA VERA MERAVIGLIA
Per gli altri invece era la meraviglia. «Per la nostra generazione ha rappresentato quello che nel Sette/Ottocento ha rappresentato il Grand Tour, solo qui a partire non erano solo i figli dei nobili, ma ragazzi di tutte le classi sociali: dai borghesi agli operai, c’era abbastanza varietà umana. È stato un po’ l’apripista del turismo di massa» racconta. «Il flusso si è interrotto per forza di cose nel 1979, con l’invasione russa dell’Afghanistan, ma già da qualche anno l’aria era cambiata, si respiravano le tensioni nella zona, specie con l’arrivo di Komehini al potere, nel 1978». Un’esperienza dunque irripetibile, per numeri di partecipanti e intensità dell’esperienza. «Forse per la generazione successiva l’Inter Rail e dopo l’Erasmus hanno rappresentato qualcosa di simile come esperienza di vita» commenta Giordana.
Ma come viaggio quello ha dell’irripetibile. «Anche se gli epigoni di quel movimento esistono, anche se in India non arrivano più via terra, ma in aereo. Poi si comportano più o meno allo stesso modo assai frikettone, fatto di eccessi e libertà. Ma più che europei oggi sono tanti israeliani che vanno dopo aver finito il servizio miliare obbligatori, oppure russi alternativi, in fuga dal Paese» spiega. A leggere di quei viaggi nel mondo viene da domandarsi se non si avesse paura a intraprenderli. «No, era a suo modo un viaggio facile, costava comunque poco anche perché era fatto in assoluta economia e si sfruttava la solidarietà del gruppo e della gente che incontravi per strada» racconta. E poi non si andava tanto per il sottile, in vero stile hippie se c’era da dormire in spiaggia, o in una grotta si dormiva. «Anche se spesso si provava la grande ospitalità delle persone di quelle terre, se avevi bisogno una mano te la davano sempre, imparavi questo che è un tesoro per chi viaggia: che all’imprevisto c’è sempre una soluzione» spiega.
L'EPOPEA DEL MAGIC BUS
«I più organizzati erano gli australiani che partivano con i Magic Bus da Londra e tornavano a casa, ma a mio modo di vedere era un viaggio meno affascinante. Il nostro era più scalcagnato e disorganizzato, si arrivava, ci si fermava settimane in un posto a conoscere gente e poi si diceva di ripartire per la tappa successiva». In ogni città c’erano i luoghi obbligatori, come la Chicken street di Kabul o la Freak street di Kathmandu, dove si incontravo i viaggiatori. «Altra tappa obbligata erano i fermo posta, da cui si riceva la scarna corrispondenza che però arriva visto che le Poste funzionavano meglio. Perché alla fine anche se all’avventura eravamo pur sempre ragazzi giovani lontani da casa in posti diversissimi, e un po’ la mancanza la sentivi». Ma poi c’era quella meraviglia del mondo che si provava quotidianamente, e allora non si poteva far altro che continuare ad andare.