Per vivere sonni tranquilli non basta neanche sopravvivere a 15 anni di guerra civile. È quello che è successo a una buona parte del patrimonio architettonico di Beirut: scampato in qualche modo a 15 anni di bombardamenti, granate e autobombe non ha retto all’assedio degli investitori decisi a rifare il volto della capitale libanese. Persa la zona del vecchio Suk, salutato il vecchio quartiere ebraico di Wadi Abou Jamil, cancellato il quartiere Bachoura, Beirut assomiglia sempre più a una piccola Miami sul Mediterraneo.
 
Alte torri, marine all’ultima moda, palazzi svuotati dagli abitanti storici e ricostruiti per essere venduti ai ricchi borghesi del mondo arabo, desiderosi di avere un pied a terre in una città tollerante e libertina. È il cuore del controverso progetto Solidere, voluto dall’ex premier Rafiq Hariri, assassinato il giorno di San Valentino del 2005, e sviluppato in questi anni all’insegna del lusso e della speculazione immobiliare. Un progetto che ha reinventato lo spazio centrale della città, quello che durante la guerra civile era teatro degli scontri lungo la linea verde. Dopo aver abbattuto oltre 2mila palazzi per ricostruirli con un involucro finto antico, sono stati aboliti anche i venditori di strada che popolano ogni città mediorentale e musealizzati ad uso e consumo dei pochi turisti tutti i resti archeologici fenici e romani.
 
SPECULAZIONE SENZA FINE
Quello che non ha fatto la guerra, l’ha fatto nello stesso arco di tempo il progetto architettonico che ha ridisegnato la città facendo piazza pulita di qualunque stratificazione storica. Inutili orpelli che animano le città con 5mila anni di storia come Beirut e che le rendono quel che sono: un corpo vivo. E invece, niente più artigiani che combinavano casa e bottega, svaniti i nobili decaduti che tenevano duro specchiandosi nelle loro screpolate dimore ottomane, c’è spazio per i soliti negozi del lusso nascosti dietro le facciate in pietra ramleh dai colori pastello. A 25 anni dalla fine della guerra è tutto l’immaginario di una città a essere evaporato. Ma c’è qualcuno che non ci sta.

«Sembra che la nostra generazione non abbia diritto a vedere Beirut per quello che era: ovvero una bellissima città» ha raccontato al New York Times Giorgio Tarraf, architetto 27enne, anima di Save Beirut Heritage, un'organizzazione non governativa nata con l’intento di preservare quel che resta del patrimonio architettonico cittadino. Prima mossa è stata censire i palazzi rimasti in piedi affidandosi a un passaparola su Facebook e all’attivismo di tanti giovani che delle bellezze di Beirut avevano solo sentito parlare. Il passo successivo è stata una lunga serie di happening e manifestazioni per far pressione sul governo affinché ponesse un alt alle distruzione.
 
 
PALAZZI DA SALVARE
Operazione in parte riuscita grazie all’appoggio del ministero della Cultura che ha stilato una lista di 500 palazzi da salvare. «Ma oggi sono meno di 300» spiega Tarraf. E molti di questi sono in condizioni pessime: facciate corrose dall’umidità e in qualche caso ancora crivellate dei colpi della guerra civile abitati da chi non può permettersi un restauro o un appartamento altrove. Si tratta di palazzi ottomani con scale e colonne, o ancora di costruzioni dal gusto francese lasciato del periodo della legazione. Palazzi che però i costruttori bramano perché sono a ridosso del centro città, in quartiere che si stanno sviluppando in verticale. E così, con qualche parola detta all’orecchio giusto i costruttori spingono perché la municipalità li dichiari inagibili costringendo gli abitanti ad andare via per un piatto di hummus. Ma i mezzi in cui i costruttori attentano al patrimonio storico della città sono molteplici e diversi. «Alle volte dicono di volerli restaurare tenendo intatta la facciata che però puntualmente crolla durante i lavori et voilà, il gioco sporco passa per un incidente» raccontano.

E così della bellissima Beirut ottomana e francese, della vita cosmopolita delle sue strade che odoravano di melograno non rimane che un ricordo trascurato e sbiadito. Le vestigia del passato che si vedono passeggiando per la Downtown sono artefatte: cartapesta ben tenuta, un finto centro storico cittadino che sembra un trompe-l’oeil. La modernizzazione non dovrebbe essere a spese della storia, ma vallo a spiegare a un’affarista libanese, o italiano.