“Terrorismo: l'Europa blinda treni e stazioni”. Quotidiani e agenzie di stampa hanno sintetizzato così i risultati del vertice Ue seguito all'attentato sul treno ad alta velocità Thalys Parigi-Amsterdam, sventato da due militari Usa in vacanza. Tre le misure di sicurezza fondamentali annunciate dai ministri dei Trasporti presenti: biglietti nominativi per identificare in anticipo i passeggeri, pattuglie miste per il controllo dei convogli internazionali, check-in analoghi a quelli oggi previsti per gli aeroporti. Oltre, ovviamente, a un maggiore e più ampio coordinamento tra i servizi di intelligence dei vari Paesi coinvolti.
MISURE ATTUABILI?
Nuove regole banali, a prima vista. Ma che rischiano di stravolgere, o peggio, di gettare nel caos inutilmente la mobilità ferroviaria se applicate con il medesimo rigore oggi messo in campo per il trasporto aereo. Prima di tutto perché la storia ci insegna che, per loro natura, le infrastrutture ferroviarie sono indifendibili: alla vigilia della rivoluzione russa lo zar arrivò a dotare ogni ponte e ogni stazione della Transiberiana di una guarnigione militare. Il risultato è noto. E poi perché il numero dei passeggeri su rotaia è almeno 10 volte più alto di quello degli aerei; per non parlare del rapporto tra numero degli scali aerei e delle stazioni ferroviarie...

I CASI SPAGNA E CINA

Una conferma indiretta, seppure dolorosa, arriva dalla Spagna, dove – caso unico in Europa – fin dal 1992 tutte le stazioni dell'alta velocità Ave prevedono il controllo con metal detector prima di raggiungere la banchina del treno. Il che non ha impedito ai terroristi di causare 191 vittime negli attentati del 2004 a Madrid, messi a segno proprio sui quei convogli regionali che il volume dei passeggeri trasportati e il numero delle fermate intermedie impedisce di verificare capillarmente. Idem dicasi per la Cina, dove è vero che i metal detector sono presenti persino in gran parte delle stazioni della metropolitana. Ma la realtà quotidiana, come racconta chi ha vissuto un po' a lungo a Pechino o a Shanghai, dimostra che per evitare paralisi del flusso di passeggeri (la foto sopra, scattata in una stazione di Pechino, vale mille discorsi) il personale addetto ai controlli “dorme” o tiene tarati bassissimi gli strumenti.
E ALLORA?
Annunci mediatici a parte, la misura più facile da attuare senza mettere a rischio la mobilità ferroviaria è l'obbligo del biglietto nominativo. La tecnologia, con ticket elettronici e biglietti via app sullo smartphone consente di arrivarci senza troppi intoppi. Sono dati utili ai servizi di intelligence nell'opera di prevenzione e saranno in pochi a rimpiangere i biglietti in forma di talloncini di carta e cartone. E, sul versante dei pendolari, l'uso degli abbonamenti a smart card consente di aggirare gran parte dei problemi. Altrettanto a basso impatto la misura dei pattugliamenti, anzi graditi a molti passeggeri che lamentavano di essere spesso abbandonati a sé stessi in orari notturni e a bassa frequentazione.

IL NODO DEL CHECK-IN

L'intervento critico, invece, resta quello sui controlli d'imbarco. Perché, dando pure per scontato che vi possano essere soggetti solo i convogli a lunga distanza, un check-in a standard aeroportuale avrebbe conseguenze pesantissime. Tra le carte vincenti del treno ci sono proprio i ridotti tempi d'accesso al vagone e il fatto di poter portare con sé di tutto, senza troppi patemi d'animo. Imporre un bel quarto d'ora d'attesa ai manager che usano il Milano-Roma come ufficio semovente su cui salire al volo? Costringere al martirio del “lo shampoo sì, le forbicine no, l'acqua minerale forse” i trasfertisti con i valigioni da 60 litri? Se gli operatori ferroviari europei vogliono evitare la fuga dei passeggeri (in parte già in atto in Germania) verso i servizi di autobus a lunga distanza devono riuscire – con molto equilibrio e un pizzico di buon senso – a coniugare le esigenze di sicurezza con quelle di mobilità dei viaggiatori.

CHI PAGA IL SECURITY SURCHARGE?
C'è pure un risvolto pratico finora ignorato: i (costosi) controlli aeroportuali antiterrorismo li paghiamo noi passeggeri, compresi nella tassa d'imbarco. Ma, date le già salate tariffe dei treni, appare poco praticabile imporre a tappeto un “security surcharge” (come lo chiamano elegantemente le compagnie aeree) ai biglietti ferroviari, onere che sarebbe facilmente vissuto dagli utenti come un balzello inaccettabile, data la diversa frequenza dei viaggi e la differenza tra l'importo medio di un ticket aereo e quello di un biglietto ferroviario.