Touring Club Italiano racconta i "Civic Places", nell'ambito della campagna nazionale per la scoperta e la valorizzazione dei luoghi civici in Italia promossa da Fondazione Italia Sociale. Dopo la Casa della Legalità a Manerba sul Garda, in Lombardia, ecco il Piccolo museo del Diario di Pieve Santo Stefano, in Toscana.

Sulle prime si è perplessi. Da bambini ci insegnano che i diari sono per definizione segreti, lo scrigno cui si affidano ansie e pensieri, amori e frustrazioni, sogni e fallimenti, sussurri e mormorii. Uno spazio in cui si confida a sé stessi quello che non si riesce, o forse non è neanche necessario, dire al resto del mondo. E invece a Pieve Santo Stefano, un paese aretino nell’alta valle del Tevere, c’è un piccolo museo che mette letteralmente i diari in piazza. E non sono diari di scrittori o uomini politici, che del loro essere personaggi pubblici hanno fatto la cifra della loro esistenza. No. Sono i diari delle decine e decine di Giuseppe e Maria, Francesco e Alessandra che hanno attraversato la storia d’Italia negli ultimi secoli senza guadagnarsi una riga su nessun libro di testo, ma che non di meno hanno vissuto e hanno scritto della loro vita. Vite racchiuse nei diari che da qualche decina di anni confluiscono in questo borgo toscano, al cui ingresso c’è un cartello giallo che è un manifesto: «Pieve Santo Stefano. Città del diario».

Qui dal 1984 è stato creato l’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano, ospitato nella sale del Palazzo Pretorio. Ideato dal giornalista Saverio Tutino, cresciuto grazie a un gran numero di volontari che hanno creduto nel potere della parola e nell’importanza della memoria, per anni è stato un archivio uguale a ogni archivio storico. Cartelline rosse e verdi organizzate per anni di invio e ordine alfabetico al cui interno erano conservati i manoscritti, addetti gentili che li aprivano per gli interessati. Ma il rischio degli archivi è che rimangano cassetti che apre solo chi vuole, segrete stanze per iniziati. E invece gli archivi per essere davvero aperti devono prendere vita e parlare a tutti. E qualche modo migliore di un museo? «Morto Tutino, nel 2011, ci siamo posti la domanda di come poter valorizzare questo luogo della memoria», racconta Natalia Cangi, direttrice della Fondazione Archivio diaristico nazionale.
Domanda cui ne seguirono tante altre. «Come proiettarci verso un pubblico più vasto? Che cosa mettiamo in queste stanze di un palazzo del Cinquecento? Come rendere fruibile un patrimonio di oltre diecimila diari, un milione e trecentomila pagine?». Già, come? «In parte abbiamo battuto la strada della digitalizzazione del nostro patrimonio, e da allora ci siamo specializzati in comunicazione online. Ma volevamo anche qualche cosa di concreto, che ci permettesse di mantenere la dimensione intima, sussurrata di tutto questo» racconta. Con l’aiuto della tecnologia e di un gruppo di creativi – lo studio di design multidisciplinare dotdotdot – si sono cimentati nell’impresa non facile e non scontata di dare vita a un archivio. Ne è nato un museo con poche stanze e tanti contenuti. «Piccolo di nome, piccolo per superficie occupata, ma grande per tutto il resto. Un luogo dove la parola scritta e la voce sono al centro del progetto, non gli effetti speciali, che invece sono solo di supporto al racconto» spiega.
Un museo in cui si viene presi per mano e accompagnati alla scoperta delle storie. «Quando si viene qui si deve diventare partecipi del percorso. Le parole, queste parole, non devono essere astratte ma concrete. Per cui nella prime sale ognuno viene trasportato in un mondo che non è il suo, invitato ad aprire questa cassettiera immaginaria e trovare rifugio nelle storie che vi sono riposte. Storie che sono assai personali, ma che riescono a parlare a tutti, perché parlano di singoli ma anche di vicende collettive».

Storie minime, intime però dal grande potere evocativo, che viene interpretato dai tanti attori che hanno donato le loro voci per dare un tono e un colore a queste vite. E così saliti i sedici gradini che introducono al museo ci si trova in una realtà fatta di immagini, rumori e suoni, in spazi in cui le storie personali escono dalle pagine e si liberano in un mormorio di cui ognuno si appropria come meglio crede. «Ogni visitatore che entra viene accompagnato, ognuno è preso in carico da una persona che lo traghetta in questo racconto – prosegue Cangi –. Le guide sono giovani, formate per farti aprire il cassetto e affidarti una storia, anche perché ci rivolgiamo a un pubblico diverso rispetto a chi ci frequentava prima. Non più insegnanti e studiosi con uno spiccato interesse per il tema della memoria, ma una comunità più ampia, fatta di pellegrini della Francigena, gente del posto e tanti studenti».

Ma nel museo c’è anche dell’altro, molto tangibile. «Come il lenzuolo scritto da una contadina di Poggio Rusco, Clelia Marchi, emblema dell’archivio e del museo, cui è dedicata l’ultima sala. Un sudario di parole opera di una donna nata nel 1912 che rimane vedova a 72 anni, e allora si mette a scrivere e scrivere per continuare a condividere i suoi pensieri con il marito morto. Fino a quando, non avendo più carta, inizia a scrivere sul lenzuolo più bello che ha, memore di quello che le aveva raccontato la maestra, ovvero che gli Etruschi avvolgevano i loro morti in lenzuoli scritti. E così scrive, scrive... scrive le storie della sua terra, della povera gente, della fatica, del suo amore, del suo dolore, della sua vita: “care persone fate tesoro di questo lenzuolo”».
O come la stanza dedicata a Vincenzo Rabito: «Una scrivania e una macchina da scrivere per riassumere la storia di quest’uomo la cui vicenda ha in parte cambiato i destini del nostro archivio, imponendolo anche all’esterno – grazie al successo dell’edizione Einaudi – della cerchia degli interessati e dei ricercatori».

Una stanza in cui ci si avvicina alla figura di questo cantoniere semi-analfabeta di Chiaramonte Gulfi che ha consegnato a un diario fiume le sue memorie di un’esistenza guerreggiata. La vita di una persona che ha attraversato il Novecento prendendo parte a due guerre, cercando di sopravvivere alla fame del sud contadino, e che a un certo punto si è chiuso in una stanza, in lotta con la sua famiglia. E battendo senza sosta i tasti di una vecchia Olivetti in sette anni ha composto 1027 pagine a interlinea zero confezionando, in una lingua immaginifica che mischia siciliano e italiano, il suo personale diario di un’esistenza. Perché «se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare». E invece ogni uomo, insegna una visita al Piccolo museo del Diario, ha molte storie da raccontare. Tutte quelle che si stanno nelle pagine di un diario che prende vita tra le mura di un museo.

INFORMAZIONI
- Piccolo museo del Diario, Palazzo Pretorio, piazza Plinio Pellegrini 1, Pieve Santo Stefano (Ar); tel. 0575.797734; piccolomuseodeldiario.it e archiviodiari.org.
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