Quando viaggiare non è un’opzione praticabile per i motivi che tutti sappiamo ed è giusto fermarsi e stare in casa finché l’onda non sarà passata. E dalla poltrona del salotto, dalla sedia in balcone, dal comodo del proprio divano si può comunque continuare a muoversi con la mente mettendo in pratica quello che i britannici chiamano “armchair travel”, ovvero la lettura di libri di viaggio. Reportage che permettono una innocente evasione in compagnia di chi è partito per saziare la sua curiositào lo spirito d’avventura ed è tornato per raccontarlo. Racconti di prima mano di mondi lontani e diversi, esperienze ricche di passione, empatia e divertimento spesso in zone periferiche che magari mai visiterete, ma che stuzzicano fantasia e voglia di scoprire. E poi, chi lo sa, non è detto che a emergenza finita, non si decida di partire con un libro sotto braccio per visitare i luoghi di cui si è letto in questi giorni…
Ecco la ventottesima puntata.
 
Si chiamava Patrick Leigh Fermor e doveva essere un bel tipo. Uno di quelli che da giovane i genitori ti direbbero di non frequentare, cattiva compagnia, un poco ribelle, incostante, poco studioso. Uno che però vorresti avere come zio, di quegli zii che si scordano i compleanni perché sono sempre altrove, ma che ti spronano a vivere la tua vita senza tirarti indietro, per cui ogni parola è un distillato di filosofia da tenere a mente. Fermor è, o meglio era, uno di quelli che vorresti avere come amico per sentirlo raccontare delle sue tante vite. Per sapere di più del suo matrimonio con la principessa Balasha Cantacuzene, una nobile rumena già sposata di cui si invaghì diciottenne; dei suoi anni a Creta, durante la guerra, da cui hanno tratto anche un film; o dei suoi anni in convento, sul monte Athos. O ancora di quando andò a zonzo per i Caraibi, scrisse un libro che almeno in Italia non è più pubblicato dal 1957, e divenne uno scrittore famoso.
Oppure di quando appena maggiorenne decise di prendere uno zaino, 5 sterline, due libri – di cui uno di poesie – e mettersi in cammino, da Londra e Costantinopoli. Era il 1933, l’8 dicembre, a Londra pioveva. L’Europa era ancora quella di un tempo: un continente popolato di minoranze, interesanti giacenze della storia che abitavano in paesaggi agrari ancora intatti, come erano intatte le città antiche della Mittleuropa che attreversava, un'Europa orfana degli Asburgo e dell'Impero multinazionale, un'Europa che si preparava alla catastrofe. Ecco, Patrick Leigh Fermor era uno per cui la vita era una grande avventura, e come tale andava vissuta e raccontata.
Fermor non c’è più, è morto nel 2011, aveva quasi cent’anni e ancora non aveva finito di scrivere di quel viaggio memorabile. Perché di quell’avventura da ragazzo scrisse e riscrisse tutta la vita. Certo, tenne un diario durante il viaggio, ma il primo gli venne rubato con lo zaino a Monaco di Baviera, gli altri li perse negli anni e li ritrovò qualche decennio dopo in una soffitta rumena. Ma era il diario di un diciottenne, buttato giù di getto, sera dopo sera, con tutte le imperfezioni del caso, e a ben vedere non sarebbe stata una gran lettura. Mentre Tempo di regali e Fra i boschi e l’acqua (pubblicati da Adelphi, neanche a dirlo) sono due di quei libri che ti riconciliano con il piacere della lettura dei libri di viaggio. Scritti a partire dagli anni Settanta raccontano in quasi 550 pagine quel viaggio da ragazzo, la parte che va da Londra fino alle Porte di ferro, ovvero dove il Danubio segna il confine tra Romania e Bulgaria.
 Rappresentano un poco l’equivalente di On the road di Jack Kerouac all’Europea, almeno per chi è affascinato da quell’aura dei viaggiatori borghesi di preferenza britannici che per un paio di secoli hanno attraversato l’Europa come un romanzo di formazione. Ecco, l’opera di Fermor è un po’ come se fosse l’ultimo libro del Grand Tour, forse il migliore almeno per un lettore contemporaneo. Migliore per la bellezza dei libri, per l’interesse documentario del mondo che racconta, per le avventure che vive. Ma sopratutto migliore per la qualità della scrittura, per l’abilità di descrivere il mondo che attraversava con una precisione e un lirismo mai fine a se stesso, mai eccessivo o melenso, sempre preciso, evocativo, piacevole. 
Uno stile basato su di una memoria prodigiosa, considerato che il primo volume – Tempo di regali – è uscito 44 anni dopo quel viaggio. Ma soprattuto uno stile costruito sull’uomo, nel senso che Fermor viveva come scriveva: in modo intenso, pieno, onnivoro. Il che, tradotto sulla pagina, diventa uno stile piacevolmente immaginifico, ricco di digressioni, appassionatamente dettagliato senza mai stancare, straboccante di sapere ad ogni riga: che sia storia, arte, linguistica, religione, mito, geografia o etnografia. Pagine che mescolano avventura e cultura, andare e meditare come pochi riescono a fare. Quando chiudi uno dei suoi libri hai sì voglia di partire per vedere come è oggi la pianura ungherese, ma anche di informarti ancora di più su come e perché quel luogo è diventato così. Eppure, paradossalmente, quando si mise in viaggio era uno sbarbatelo che aveva già cambiato una manciata di scuole da cui era stato puntualmente buttato fuori, era considerato inadatto alla vita militare.
Ma nonostante queste premesse, coltivò una erudizione straordinaria, non pedante, capace sempre di costruire un quadro complesso dei luoghi che attraversa. Il tutto con una precisione di linguaggio stupefacente, per cui un albero non è un albero, un uccello non è un volatile qualunque ma un “codirosso o un culbianco”. Una scrittura frutto di un perfezionismo maniacale, di un lavoro sulla pagina fatto di continue riscritture. Per cui ci mise 4 anni ad arrivare da Londra a Istanbul, e il resto della vita a scriverlo, senza neanche concludere la sua opera. Già, perché Fra i boschi e l’acqua si conclude esattamente come Tempo di regali, con un bel CONTINUA scritto in maiuscolo.
Sono sue due terzi di una trilogia incompiuta: siamo arrivati solo alle Porte di Ferro sul Danubio, mancano ancora 800 chilometri a Istanbul, la sua destinazione. Una città immensa dove però si fermerà solo pochi giorni, attratto da quella Grecia che diventerà la sua patria e a cui dedicherà altri due libri, Mani e Roumeli. Quell’ultima parte di viaggio è raccontata in La strada interrotta il volume a cui Fermor lavorò per anni e anni, senza mai averne una versione definitiva. Quella che si può leggere è quella curata da Colin Thubron e Artemis Cooper, che hanno messo mano al manoscritto su cui Fermor si era tormentato per anni per i troppi difetti, per la sua elusività. Fermor avrebbe voluto che fosse scritto? Forse no. Anzi: no, sicuramente no. Eppure il libro era lì scritto, visto e rivisto, corretto e ricorretto mille volte, ma non finito, non per lui. Non finito, come ogni viaggio che si rispetti. CONTINUA.

Su Fermor, il suo viaggio in Grecia, nel Mani, e il suo rapporto con Bruce Chatwin abbiamo scritto in questo reportage.
 

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