Tutte le fotografie sono di Roberto Copello

Tra le colonne e le piastrelle bianche e blu della sinagoga quattro generazioni di una stessa famiglia, dai nonni ai nipotini, cantano canzoni ebraiche passandosi vassoi di pasticcini. Due anziani e barbuti batlanim salmodiano senza interruzione preghiere secondo le intenzioni dei fedeli che hanno lasciato loro un'offerta. Sulla porta, incitato dai presenti mentre finisce di trascinarsi sulle ginocchia, appare un giovane con il fez in testa e una fascia nera in vita, segno di lutto per la distruzione del Tempio. Un altro pellegrino, spossato, dorme disteso su una panca in un angolo. Un'anziana contadina ebrea, con il foulard in testa, aiuta signore ingioiellate a calarsi in un buco nella roccia, quindi a uscirne senza farsi male. Fuori dell'edificio, uno studente ultraortodosso chiede contributi per la sua scuola rabbinica, vendendo tefillin, i piccoli astucci di cuoio per la preghiera.

Gerusalemme, Israele? No: Djerba, Tunisia. Sì, l'isola-giardino che tanti conoscono e amano per la mitezza del clima, le spiagge bianche, i profumi dei souk, il candore dei muri, l'azzurro delle finestre, il blu cobalto del cielo, il milione di palme e i 600mila ulivi.
L'ISOLA DELLA TOLLERANZA
Djerba, l'isola più estesa della Tunisia, lunga e larga una trentina di chilometri, è davvero un'oasi galleggiante, il luogo dell'anima per i tanti turisti europei che ogni estate sbarcano in questo piatto quadrilatero mediterraneo, punteggiato da 2.700 pozzi e da ben 246 piccole moschee. Un bastione dell’islam ultraortodosso, dunque? Tutt’altro. Djerba è l’angolo più tollerante e multireligioso della Tunisia, già di per sé il più democratico e aperto dei paesi a maggioranza musulmana. Gran parte dei 160mila djerbiens aderisce a un’antichissima eresia islamica, l’ibadismo, uno dei cui pilastri è proprio la tolleranza.

Ma l’isola è anche abitata da una comunità giudaica, da tempo immemorabile, come attesta già nel 1030 una lettera scritta al Cairo. Furono proprio i mercanti ebrei a rendere il capoluogo Houmt Souk il florido centro commerciale che continua a essere, con la tortuosa medina dove da generazioni i maestri orafi ebrei si tramandano i segreti dell'arte della filigrana. Anche dopo le corpose emigrazioni verso Francia e Israele, a Djerba restano ancora almeno 1500 ebrei, raccolti in particolare nel villaggio di Hara Seghira, vicino a quella sinagoga bianca e azzurra, la Ghriba, che si vorrebbe la più antica del mondo.

Una leggenda (in realtà messa per iscritto solo a metà del XIX secolo) narra infatti che a gettare le sue fondamenta sarebbero stati alcuni ebrei scampati ai babilonesi nel 586 a.C., quando Gerusalemme fu presa da Nabucodonosor e il Primo Tempio, quello fondato da re Salomone, fu raso al suolo, mentre l'Arca dell'alleanza in esso custodita era dispersa per sempre. Fuggiti dalla Città santa, quei profughi avrebbero portato a Djerba una porta e alcune pietre del Tempio, sassi sacri quanto possono esserli quelli del Muro del pianto, includendoli nella nuova sinagoga eretta sull'isola (un'altra versione indica che tutto ciò sarebbe accaduto non nel 586 a.C. ma nel 70 d.C., dopo la distruzione del Secondo Tempio a opera dei romani guidati da Tito). Un'ulteriore leggenda indica poi che il luogo prescelto per la costruzione sarebbe stato quello dove abitava una ragazza (la Ghriba, “la Strana”) morta nell'incendio della sua capanna e ritenuta santa, in quanto il suo corpo fu trovato intatto, risparmiato dalle fiamme.

IL PELLEGRINAGGIO ALLA GHRIBA

Comunque sia, mescolando mito e realtà, la sinagoga della Ghriba si è imposta come uno dei luoghi più santi per gli ebrei sefarditi, che qui convergono ogni anno per onorare una delle più antiche Torah del mondo, scritta su pelle di gazzella e conservata con i suoi preziosi cilindri d'argento. Il pellegrinaggio avviene in occasione del Lag Ba’Omer, 33 giorni dopo la Pasqua, “la festa che spezza il lutto”, in cui si ricorda anche l'anniversario di morte del famoso rabbino Shimon bar Yohai (l'autore dello Zohar, il testo fondamentale della cabbala).

Così almeno accadeva regolarmente fino a qualche anno fa, prima che anche sulla Tunisia, “colpevole” di essere il paese più laico del mondo musulmano, si abbattesse la furia insensata del terrorismo islamico. Tutta l'economia di Djerba fu messa in ginocchio dopo che nel 2002 un kamikaze di al-Qaida fece esplodere un camion pieno di gas davanti alla Ghriba, causando una ventina di vittime. Poi nel 2015 l'attentato al museo del Bardo, a Tunisi, frenò nuovamente l'arrivo dei turisti in tutto il paese. Oggi però la situazione appare sotto controllo, e per la Tunisia è arrivato il momento di ripartire.

Lo prova anche la coraggiosa decisione del premier Youssef Chahed di affidare il ministero del Turismo e dell'Artigianato a un uomo di grande esperienza come il 57enne René Trabelsi, noto albergatore e tour operator, orgogliosamente ebreo e fieramente tunisino, legatissimo alla sua Djerba. Un imprenditore cresciuto in un'isola dove musulmani, ebrei e cristiani hanno sempre vissuto in armonia, entusiasti di partecipare alle feste di amici e vicini di casa che professano una religione diversa dalla propria. E amicizia e collaborazione sono i concetti che Trabelsi ha messo al centro della sua attività di ministro, creando le condizioni per rilanciare alla grande il pellegrinaggio alla Ghriba, la sinagoga di cui è storico presidente suo padre Perez Trabelsi. Così quest'anno alla sinagoga sono arrivati almeno 6mila pellegrini, cosa che non si vedeva da prima della Primavera araba. Molti erano figli e nipoti degli ebrei che lasciarono la Tunisia nel 1967, quando a seguito della guerra dei Sei giorni emigrarono in Francia o Israele.

Così in quel loro villaggio dal fascino biblico, Hara Seghira, noto ora come Er-Riadh, tutto stradine di ciottoli e cortili invasi da gloriose piante di bouganvillea, i 1400 ebrei dell'attuale comunità ebraica di Djerba si sono mescolati ai tanti francesi di origine tunisina, al folto gruppo giunto da Israele (un fatto mai scontato), ai russi e agli americani, ma anche a tanti musulmani, locali e non, in un'allegra babele etnico-linguistico-religiosa dove si confondevano arabo e francese, inglese e russo, ebraico e dialetti berberi. Tutti giunti qui per la Ghriba.

LA TRADIZIONE DELLE UOVA SODE

L'attuale sinagoga fu eretta a fine XIX secolo sul luogo, si dice, di un preesistente edificio del VI secolo. Massiccia e squadrata, con semplici muri esterni di un bianco abbagliante, sembra pensata per non dare nell'occhio. L'interno della sala più grande, invece, è gloriosamente decorato con piastrelle in maiolica bianca e blu, che ricoprono pareti e colonne con disegni floreali. Verso est si apre poi la sala della preghiera, più piccola, preceduta dal Tevah e dall'Armadio sacro contenente la Torah, coperti di drappi colorati all'uso dei sefarditi maghrebini. Su due colonne campeggia il nome dei ricchi ebrei livornesi, Giuseppe e Guido Pariente, che tra Otto e Novecento promossero la costruzione della sinagoga.
Qui si dovrebbe entrare scalzi e a capo coperto, ma il caos e l'affollamento sono tali che ogni regola pare saltare, nell'allegro accalcarsi di uomini e donne, tutti intenti ad accendere candele votive. Sì, uomini e donne tutti insieme, senza distinzioni di genere, senza le divisioni abituali nei luoghi sacri ebraici. Alla Ghriba le donne per un giorno possono andare dove vogliono e fare tutto ciò che di solito è riservato agli uomini, tanto che non a caso questa è chiamata anche “sinagoga delle donne”. Ne approfittano soprattutto per puntare a una nicchia nella parete di fondo, uno stretto buco da cui si può scendere alla “grotta della ragazza”, l'anfratto roccioso dove sarebbe stato sepolto il corpo incorrotto della “Ghriba”, la ragazza cui è legato uno dei miti fondativi della sinagoga.

Laggiù, come a compiere un rito di fertilità, belle ragazze in costume berbero ed eleganti signore parigine, ma anche una vistosa Miss Djerba e una blogger in cerca di notorietà, si calano a fatica, depositandovi uova sode sul cui guscio hanno scritto con il pennarello il nome della donna per cui chiedono la grazia di un figlio o di un marito (può essere anche se stessa). Quella donna alla fine della festa dovrà recuperare l'uovo con il suo nome e mangiarlo, condizione per vedere esaudito il desiderio. È questa una tradizione unica della Ghriba, che almeno da metà XIX secolo vi ha fatto accorrere donne sia ebree sia musulmane, specie in vista delle nozze o in caso di sterilità.

UNA FESTA POPOLARE

Insomma, a Djerba ebrei e musulmani sono abituati a convidere feste e riti. E al ministro René Trabelsi non è parso vero di poter sottolineare come il Lag Ba’Omer ebraico nel 2019 coincidesse con il Ramadan islamico, il che offriva “un'opportunità per cristiani, musulmani ed ebrei di rompere il digiuno insieme”. Prima però, dopo le preghiere di rito, per tutti la festa prosegue di fronte alla sinagoga, nel grande caravanserraglio dove un tempo trovavano alloggio i pellegrini ebrei. A poco a poco il suo bel cortile interno, circondato da due piani di portici, si è trasformato in una festa popolare, con un'orchestra mista di musicisti ebrei e musulmani che si esibisce fragorosamente, mentre il ristoratore franco-tunisino Marko fa da maestro di cerimonie, sgolandosi nel mettere all’asta preziosi rimonim, i puntali da porre sui manico di legno del rotolo della Torah. I fedeli si svenano per aggiudicarseli per migliaia di dinari e poter poi farli portare in processione. E le casse della comunità ebraica così raccolgono i fondi necessari al mantenimento della sinagoga..

Una giornata di convivenza festosa, fra canti e balli, bancarelle di artigianato e stand gastronomici con specialità tunisine come il brik all'uovo e gli spiedini di agnello, o della cucina sefardita come la pkeila, una tajine di carne, spinaci e couscous. E il digiuno? Mah... Forse da queste parti, e senza scomodare il padre della patria Bourguiba che voleva abolirlo, è un concetto abbastanza relativo, e comunque affidato alla libertà individuale.

LA FINE DEL DIGIUNO
Poi, verso la fine del pomeriggio, finalmente s'avvia la festosa processione. Cantando “Rabbi Shimon, quando verrai a liberarci dall'esilio?” i fedeli spingono, seguono o precedono la Menara, il carro con la menorah, il candelabro a sette braccia che è rivestito da una piramide di drappi di seta colorati sui quali sono scritti i voti dei fedeli, con in cima la stella di David e la scritta “Shaddai”, l'Onnipotente. Aggrappato all'instabile struttura, sulla quale sono stati anche collocati i rimonim battuti all’asta, Marko la cavalca come un sacerdote-cocchiere, al collo una collana con una vistosa mano di Fatima e al polso un Audemars Piguet su cui controlla quanto manca all'ora del tramonto, quando ebrei e musulmani assieme “taglieranno “il digiuno. Per nulla al mondo rinuncerebbe al privilegio di suonare il tamburello, di sistemare i teli che franano giù dalla Torah, di dirigere dall'alto quello che appare quasi un corteo nuziale. E che infatti simboleggia, di fatto, l'unione mistica fra Dio e il popolo d'Israele.


 

La processione passa fra due file di militari della Bat (Brigade antiterrorisme), di artificieri della Bndne, di unità speciali della Bnir (Brigade Nationale d'Intervention Rapide), e poi ci sono ovunque poliziotti in borghese, vigili urbani, pompieri. La presenza delle forze dell'ordine è imponente, ma nessuno pare inquietarsene. Il clima generale resta festoso, rilassato, tranquillizzato dalla volontà del governo tunisino di proteggere turisti e pellegrini. Peccato solo che le esigenze della sicurezza impediscano alla processione di fare il giro delle venti sinagoghe di Djerba, come si faceva un tempo.

C'è persino un poliziotto che, divertito, riprende il corteo con il suo smartphone, mentre il sole sta ormai calando e si avvicina il momento tanto atteso. Alle 19.16 in punto di mercoledì 22 maggio 2019, svanito l'ultimo raggio di sole, rabbini e musulmani, ministri e pellegrini, riuniti fuori della sinagoga proclamano la fine della giornata di digiuno, in un iftar comune che unisce rappresentanti e fedeli delle tre religioni del Libro. La festa continua, ma una grande cena può iniziare, con il ministro che non nasconde la sua soddisfazione. Domani è un altro giorno, ma è certo che tutti, ebrei e musulmani, lasceranno l'isola scambiandosi un versione locale del più tipico augurio ebraico: “L'shanah haba b'Djerba”, l'anno prossimo a Djerba.

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