“Sappiamo troppo poco di troppe cose” diceva Ryzard Kapuscinski. Per lui il modo migliore per aumentare il bagaglio di conoscenze era andare in giro per il mondo, vedere con i propri occhi e raccontarlo con empatia. In decenni di carriera l’ha fatto scrivendo libri dai quattro angoli del mondo; libri che hanno fatto conoscere al mondo un genere letterario, il reportage narrativo, in cui i polacchi spiccano. Tanto che oramai si parla di “scuola polacca del reportage”. Morto Kapuscinski il testimone è stato raccolto da una manciata di ottimi giornalisti che in parte sono stati tradotti anche da noi, come Wojciech Gorecki, Hanna Krall e Wojciech Tochman, autore di Come se mangiassi pietre (Keller editore), uno splendido, durissimo, reportage sulla Bosnia del dopoguerra. Il perché questo avvenga proprio in Polonia prova a spiegarlo Mariusz Szczygiel, giornalista e autore di due libri di reportage (Gottland, un’esplorazione della storia cecoslovacca attraverso personaggi secondari, e Reality).

Da dove prende origine la tradizione polacca del reportage narrativo? "Il Polonia abbiamo il reportage narrativo da un lato perché un tempo la censura comunista non permetteva di affrontare la realtà in maniera diretta. E così gli autori, se volevano parlare della Polonia senza dover mentire al lettore, erano costretti a inventare degli stratagemmi letterari per aggirare la censura. Dall’altro perché il mondo di oggi è un mondo che incute terrore, e la “narrativa giornalistica” permette di comprenderlo meglio, traducendolo e addomesticando per il lettore. E il mondo addomesticato ci sembra meno temibile. Ecco la ragione per cui ci piace tanto leggere reportage."

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