Le vie degli archivi sono infinite. Basta saper cercare. Le archiviste del Touring, Luciana Senna e Ilaria Parma, erano alla ricerca di immagini dell’Ucraina, si voleva dare un’idea di come fossero un tempo le varie Kiev, Odessa o Leopoli. Solo che un archivio come quello Touring, che prima di essere un archivio storico era un archivio funzionale alla lavorazione delle pubblicazioni editoriali, ha una stratificazione di classificazioni figlie di epoche e utilizzi diversi. Per cui le immagini, diciamo di Odessa, si possono trovare sotto Russia, ma anche Ucraina e Urss, perché l’archivio esiste da quando esiste il Touring – 23 anni prima della nascita dell’Unione Sovietica – e il materiale è stato classificato seguendo le evoluzioni della storia. E Odessa nel Novecento ha avuto una storia perlomeno complessa.
BORIS ERWITT, CHI ERA COSTUI?
Come spesso accade, le scoperte più interessanti di chi cerca in archivio, specie in uno con 350mila stampe, le fa casualmente perché mosso da sana curiosità intellettuale. Così cercando tra scaffali, corridoi, armadi ignifughi, classificazioni geografiche e per argomento, nel faldone Urss è saltata fuori una busta in carta pergamino con scritto a mano Urss-Yalta. All’interno una trentina di fotografie 20x25 cm in bianco e nero. A incuriosire è stata un’immagine con due signore intente nella pesa: una – colei che custodisce la bilancia medica – indossa il camice e porta occhiali da sole al contrario, l’altra un cappello di paglia bianco. Pesarsi e misurare l’altezza viene 2 copechi.
Ma a far sobbalzare le archiviste è stato il retro dell’immagine, dove venivano segnate didascalie e dati di produzione. C’è un timbro rosso, inequivocabile: Photography by Boris Erwitt, 57th Street, New York. Non serve essere studiosi di fotografia per associare il cognome Erwitt a Elliott Erwitt, uno dei mostri sacri della fotografia. Ma bisognerebbe essere perlomeno biografi di Eliott Erwitt per sapere così a memoria che suo padre si chiamava in effetti Boris. Ma possibile che fosse davvero un fotografo, primo di una dinastia? A una ricerca in rete sembrerebbe possibile, ma non certo.
Yalta - foto di Boris Erwitt - copyright Archivio Touring

Cercando per chiavi tanto fantasiose quanto casuali ecco che ci si imbatte in un rimando a Boris Erwitt, fotografo inviato in Russia. Si riferisce a un articolo, My three weeks in Soviet Union, testo e foto by Boris Erwitt, pubblicato nel luglio 1967 sul numero 7 della rivista Soviet Life. Si tratta di una rivista pubblicata per un accordo reciproco tra il governo degli Stati Uniti e quello dell’Urss. Tirato in 30mila copie, il magazine raccontava ai lettori americani le conquiste della cultura sovietica, avendo cura – chissà come – di non parlare di politica.

Allo stesso modo Washington pubblicava in Urss la rivista America, che raccontava a 30mila lettori sovietici i trionfi del capitalismo. Belle storie che si scoprono seguendo il filo di una fotografia. Ma non divaghiamo: che il Boris Erwitt che viaggia in Urss nel 1966 fosse il padre del famoso Elliott Erwitt? E che fosse il medesimo Boris Erwitt delle fotografie rinvenute nell’archivio Tci? Possibile. Anche se l’articolo di Soviet Life cita Mosca, Leningrado e Sochi, non Yalta. Ma se questo fosse un errore di attribuzione geografica?
DALL'ITALIA A NEW YORK
Quel che si sa per certo – basta una ricerca online – è che Eliott Erwitt, nato Elio Romano Erwitz, è figlio di Boris Erwitz, studente di architettura di Odessa e di Eugenia Pikovsky, figlia di una ricca famiglia di mercanti moscoviti. I due si conobbero sul mar Nero e dopo la rivoluzione d’Ottobre, su impulso di lei – lui era e restò sempre socialista – fuggirono alla volta di Istanbul e di qui in Italia. Si sposarono a Trieste, a Parigi diedero alla luce il futuro contributor dell’agenzia Magnum ma si stabilirono in Italia per una decina di anni, a Milano, separandosi dopo non molto. All’indomani delle leggi razziali fuggirono, tutti insieme come una famiglia felice, dall’Italia a New York.

Qui Elio Romano Erwitz divenne Elliott Erwitt. Viveva con il padre in un appartamento dell’Upper West Side a Manhattan, frequentò le scuole pur non sapendo l’inglese e si avvicinò all’arte bazzicando i musei della città, la madre la vedeva nei weekend. Almeno fino a quando il padre Boris non fu costretto a lasciare NY e a trasferirsi in California per esercitare la nobile professione del venditore porta a porta. Professione in cui fallì e fu costretto a muoversi di nuovo, ora verso New Orleans, lasciandosi alle spalle il figlio sedicenne che nel giro di un decennio diventerà un fotografo affermato, a New York. Ma che il padre di Boris e il fotografo delle immagini rinvenute nell’archivio Tci siano la stessa persona rimaneva pur sempre solo una supposizione. Finché...

Yalta - foto di Boris Erwitt - copyright Archivio Touring

IL RACCONTO DI MIMÌ

A risolvere la questione arriva come spesso accade in aiuto la sorte, nelle fattezze di Mimì Masetti, «ma mi chiamo Miriam», una signora vivace di 94 anni, romana di nascita e d’accento, ancorché ormai lieve. Residente a Milano da decenni, una vita trascorsa come assistente dello scultore Fausto Melotti, un gran sense of humor e, soprattutto, figlia di Bela Erwitz, sorella di Boris Erwitt, una carriera da soprano e anche lei emigrata in Italia. «Tutta la nostra famiglia è venuta in Italia dopo la Rivoluzione d’ottobre. Il primo è stato lo zio Boris, nel 1922: andò a Roma con la moglie a studiare ingegneria. Mia madre lo seguì nel 1924, poi è venuto sua sorella e dopo i miei nonni, Joseph e Rossya», spiega.

Una famiglia agiata nella Russia zarista, costretta alla fuga dal cambio di regime. Una famiglia orgogliosamente russa, nonostante tutto. «Mia madre con me ha sempre parlato in russo, la lingua della nostalgia, soprattutto quando non voleva farsi capire da mio padre, toscano di nascita, che di russo sapeva poche parole» ricorda. E proprio quel fascino degli emigré dovevano averlo colpito. «Mio papà raccontava che in università aveva sentito parlare di un ragazzo, un russo che aveva donato il suo cappotto a un altro studente, un siciliano, dicendo che a lui non serviva: “Io sono russo, sono abituato al freddo”, pare abbia detto. Tipico di zio Boris essere generoso». Così l’aveva voluto conoscere, diventarono subito grandi amici durante l’università, si laurearono ma la laurea non la usarono. «Mio padre faceva il giornalista per l’Ambrosiano, zio Boris perché si trasferì con la moglie a Parigi, dove è nato Elliott». L’amicizia, quella era rimasta intensa, cementata dal fatto che «nel frattempo aveva conosciuto la sorella di Boris, Bela, mia madre».
 

Yalta - foto di Boris Erwitt - copyright Archivio Touring
UN TIPO ECLETTICO
Storie famigliari a parte, il dubbio rimane: Boris Erwitt nelle sue tante vite è stato anche fotografo? E, pur vivendo a New York, aveva un rapporto di lavoro con il Tci? Come sono finite nel nostro archivio queste fotografie inedite? Perché per quanto si sia controllato non è stata trovata alcuna pubblicazione Touring – rivista o libro – che le contenga. A dipanare la matassa è sempre Mimì. «Zio Boris aveva un ufficio in via Manzoni, all’altezza di via Montenapoleone» racconta. Per sbarcare il lunario Boris vendeva pelli e pellicce che comprava in Germania. «Lo zio non era un gran venditore: preferiva leggere, dedicarsi alla cultura. Con i clienti faceva trattare i dipendenti, che gli volevano bene e infatti ci aiutarono non poco, a me, mia madre e i nonni, quando dovemmo sfollare da Milano durante la guerra, per non venir presi dai tedeschi che ci avrebbero portato chissà dove». Da quell’ufficio milanese Boris Erwitt dovette scappare in fretta e furia dopo che furono approvate le leggi razziali. «Un giorno vennero i fascisti a prenderlo e lui se la svignò dal retro, catapultandosi alla stazione, saltando su un treno per Nizza con pochi spicci in tasca. Lui passò per Dakar per arrivare in America, mentre la famiglia si imbarcò dalla Francia con una delle ultime navi. E allora iniziò un’altra vita. Fece di tutto: aggiustare orologi, vendere mobili di antiquariato e poi anche il fotografo, che è sempre stata una passione di famiglia», ricorda. Tipo eclettico, zio Boris.
Sul fatto che l'autore delle fotografie sia proprio lui, dunque, ci sono pochi dubbi, anche l’indirizzo stampigliato sul retro corrisponde, 57th Street, New York. «Dopo aver girato tra Los Angeles e New Orleans, e aver lasciato la seconda moglie Jacqueline, una francese conosciuta in treno, si era stabilito in una casa sulla 57ª, una casa essenziale, ascetica: la porta si apriva con la molla. Dentro aveva poco: una tazza, un piatto, un bicchiere. Quello che ci si aspetta da un monaco buddhista: perché nel 1957 era stato ordinato a Kyoto uno dei primi monaci americani. Mi ha mandato delle foto di quei giorni in Giappone» e nel dirlo le squaderna sul tavolo, prendendole da una busta bianca in cui potrebbe starci una partecipazione a un matrimonio, e invece c’è scritto “Zio Boris Kioto”. Venditore di pellicce, venditore porta a porta, monaco buddhista, zio Boris ha una passione per la fotografia».
 

Erwitt a Kyoto - foto di Boris Erwitt 
 
Passione che, appena si è potuto, lo ha portato a tornare a casa, in Russia. «Appena ha potuto zio è subito tornato in Russia, a Odessa, a casa. Partì in nave da Istanbul, quando furono in vista della città uscì fuori per guardarla e gli venne da piangere» spiega. «Però non sapevo che fosse andato a Yalta, prima per gli ebrei era una città proibita, perché ci andavano in vacanza gli zar». La domanda cui neanche Mimì sa rispondere è come mai Boris Erwitt avesse un rapporto di lavoro con il Tci. «Però eravamo vicini, da via Larga a corso Italia 10 è un passo. Veniva sempre in Italia e avrà conservato degli amici, no?». Possibile, probabile: ma tanti indizi non fanno comunque una prova, insegnano i gialli. Le vie degli archivi sono infinite, le risposte alle domande che vengono a frequentarli anche.
 

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