Il 27 gennaio si celebra la Giornata della memoria per commemorare i milioni di vittime dell’Olocausto. Milioni di morti che hanno insanguinato la mappa dell’Europa durante la Seconda Guerra Mondiale. Milioni di morti che hanno sancito nei fatti la fine della presenza secolare della cultura e delle genti ebraiche nell’Europa Centrale e Orientale
Siamo andati a Leopoli, in Ucraina, e a Varsavia, capitale della Polonia, per raccontare quel che rimane della presenza ebraica in queste città che negli anni Quaranta erano centri propulsori della cultura yiddish europea. E poi a Trieste, in pellegrinaggio alla Risiera di San Sabba. Ecco i nostri reportage:
 

- Il reportage dedicato alla Leopoli ebraica
- La visita alla Risiera di San Sabba a Trieste

 

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«Il ventesimo secolo è stato un pessimo secolo, per gli ebrei polacchi. Ma questo sembra essere iniziato decisamente meglio» dice Michael Schudrich, rabbino capo di Polonia, mentre cerca di non far bruciare il pranzo nel microonde. Persone come lui, o come Helise Lieberman, direttrice del Taube Center per il rinnovamento della vita ebraica in Polonia, contribuiscono a tener viva non solo la memoria, ma proprio la presenza fisica degli ebrei in Polonia. Per certi versi incontrarli è una sorpresa. Dunque esistono ancora ebrei in Polonia?
UN MUSEO DI FANTASMI
«Ovviamente quando si parla di ebrei e Polonia si parla dell’Olocausto. Così ci si dimentica che c’era una storia prima e, per quanto possa suonare sorprendente, c’è anche una storia dopo» commenta Nitzan Reisner, responsabile comunicazione del Museo degli ebrei polacchi. Camminare per quello che era il ghetto di Varsavia durante il periodo nazista è come muoversi in un museo di fantasmi. “Alle volte arrivano delle signore americane che mi dicono: sia ben chiaro, io non voglio dormire nel ghetto. E allora chiedo: dove alloggiate? Allo Sheraton. Ma quello era il posto peggiore del ghetto. E loro rimangono interdette, non sanno che dire”. Loro, come tutti, non hanno coscienza della reale estensione del ghetto. “Prima della guerra un terzo della popolazione di questa città era ebrea. Laica, ortodossa, praticante, assimilata, ma ebrea. Erano circa 350mila persone ed erano ovunque”. Così quando nel gennaio del 1940 gli occupanti nazisti decisero di confinarli in un ghetto, gran parte della riva sinistra della Vistola venne chiusa da muri e filo spinato. Oggi chi viene a cercarne testimonianze cammina in un percorso costellato di lapidi e spazi vuoti: della vita è rimasto poco. Ma la storia trasuda anche dai luoghi che non ci sono più: è la maledizione della Mitteleuropa. 

IL CIMITERO EBRAICO

In autunno, con le foglie cadute e il cielo grigio, un buon posto dove iniziare a riannodare visivamente i fili della storia è il cimitero ebraico. Quello di ulica Okopowa è una delle poche testimonianze di quegli anni ancora rimaste. Fondato a inizio Ottocento, contiene 250mila tombe. «Se uno non riesce a capire quanto grande fosse la Varsavia ebraica può venire qui e perdersi tra i nomi dei vecchi cittadini» dice Helise. Il luogo ha quell’affascinante disordine che si crede tipico dei cimiteri ebraici. “E invece è il disordine dell’abbandono forzato. Le famiglie non sono più qui, e non possono prendersi cura dei loro defunti” aggiunge. A prendersi cura di loro è rimasto Przemyslaw Szpilman, un ortodosso che amministra la vita del cimitero. Lui è tra i pochi che durante il regime non è scappato e non ha taciuto la sua identità. Ma non ne mena vanto. Se gli chiedi com’era essere ebrei durante il comunismo risponde con pacata filosofia: «Vivere durante il comunismo era dura. Come uomini, non come ebrei». 
Oltre al cimitero, chi vuole sapere qualcosa di più della storia degli ebrei in Polonia deve visitare l’Istituto storico ebraico, o andare al moderno Museo degli ebrei polacchi. All'istituto storico si possono vedere fotografie e filmati del ghetto che fanno parte della straordinaria collezione di Emanuel Ringelblum. Storico e sociologo, durante gli anni dell’invasione nazista Ringelblum ebbe la lucidità di organizzare la raccolta di documenti, diari e altro materiale, costruendo una testimonianza in presa diretta di quel che stava accadendo. L’istituto è ospitato in un palazzo neoclassico di ulica Tłomackie, dove un tempo sorgeva la grande sinagoga, costruita a fine Ottocento e fatta saltare dai nazisti per vendicarsi dell’insurrezione del ghetto, nel 1943. Oggi al suo posto c’è un grattacielo di vetro.

Al suo interno, al pianoterra, si trova il dipartimento che si occupa di ricostruire le genealogie degli ebrei polacchi e raccogliere le loro eredità, oltre agli uffici della FondazioneTaube, un’istituzione filantropica di San Francisco che si occupa di supportare la rinascita della vita e della cultura ebraica in Polonia. Del periodo nazista è rimasta in piedi solo la sinagoga Nożyk, un edificio neorinascimentale che non colpisce per la bellezza. “Venne usata come deposito dai tedeschi e non fu fatta saltare” spiega Magdalena Matuszewska, manager della Fondazione Taube che organizza visite all’eredità ebraica. Bella o meno, oggi costituisce un riferimento per tutta la comunità della capitale, che nell’attiguo centro comunitario si ritrova e svolge diverse attività, tra cui fare la spesa: nel seminterrato c’è l’unico negozio kosher di tutta Varsavia.

UN TEATRO E UN FESTIVAL
Non distante, in piazza Grzybowsky, sorge il Państwowy Teatr Żydowski, un teatro dove si può assistere a spettacoli in yiddish e sottotitolati in inglese. Tollerato durante il regime, secondo parte della comunità fornisce una visione un po’ troppo stereotipata della cultura ebraica, congelata ai tempi di Singer. E proprio a Singer e ai suoi anni è dedicato il festival che si tiene in estate in piazza Grzybowsky, all’ombra di due malridotti palazzi di mattoni che sorgono all’angolo con ulica Sienna. Del ghetto è rimasto in piedi anche un pezzetto di muro, stretto nel cortile di due grossi edifici sovietici. “La maggioranza delle persone che viene qui vuole vedere dei resti del ghetto» racconta Helise. «Questo è importante, certo, ma non esaurisce la storia degli ebrei di Varsavia. In tanti vengono cercando tracce di morte e non si accorgono che qui c’era e c’è ancora molta vita. E noi del Taube center con le nostre passeggiate guidate vogliamo farla scoprire».

A raccontarla contribuisce di certo il Museo di storia degli ebrei polacchi, che occupa uno spazio centrale del ghetto, accanto al monumento che ne ricorda l’insurrezione, in ulica Zamenhofa. «Il museo non è un luogo dove dire alla gente cosa sia giusto dire e pensare, ma un luogo per incontrarsi e discutere, per conoscere la storia degli ebrei in questo Paese» spiega con entusiasmo. In questi anni è cresciuto anche il museo senza mura. «Abbiamo realizzato concerti e passeggiate, siti internet e incontri. È un modo per mobilitare l’attenzione e far vedere che la cultura ebraica polacca non è morta, ma è viva, si contamina e dialoga con la cultura polacca contemporanea». Un modo per riconoscere il ruolo degli ebrei nella vita del Paese.

LA VITA SOTTO IL COMUNISMO
«Durante i 50 anni di comunismo non c’erano informazioni sul ruolo degli ebrei nella storia nazionale. Oggi sono in tanti a lavorare per ristabilire un minimo di verità storica. Nel 1968 il regime diede il via alle purghe antisemite: migliaia di ebrei che pure credevano nel comunismo hanno ricevuto un passaporto di sola andata per espatriare. Altre migliaia si sono nascosti« aggiunge Helise. «Fino al 1989 la gente non diceva ai figli chi erano realmente, era pericoloso. Dopo la fine del regime hanno scoperto le proprie radici» spiega Magdalena. Alle volte è stato il testamento aperto alla morte del nonno, che chiedeva di venir sepolto secondo le leggi. Altre era una confessione da padre a figlio. Maciej Pawlak l’ha saputo quando aveva 15 anni. “Ma l’ho sempre sospettato. Ero l’unico della classe a non andare ai corsi di religione. Fino al 1990 mio padre non mi disse nulla, poi mi ha preso in disparte e mi ha parlato» racconta. Oggi dirige la scuola ebraica Lauder-Morasha. Come lui tanti. «Quanti? Venti, trenta, forse 50mila. Non tutti vengono in sinagoga, non tutti sono praticanti. Ma non conta. Conta che riscoprano la loro identità» aggiunge il rabbino Schudrich. «Si è recuperata molta strada in questi vent’anni e tutto sta andando bene. Così bene che quasi mi preoccupo».