Quarant’anni e non mostrarli. Di solito si dice delle persone, non di un festival. A quarant’anni si diventa maturi, si perde quell’aria sbarazzina che si aveva una volta e si acquista una certa autorevolezza. Vale per le persone, ma anche per le manifestazioni. Il Festival della fotografia di Arles quest’anno ha festeggiato quarant’anni. E come diceva Moretti: adesso è uno splendido quarantenne. 

L’inaugurazione dei Rencontres de la photographie è stata il 7 luglio, ma nella cittadina provenzale le mostre – quasi tutte – sono aperte fino al 13 settembre. Il motto quest’anno è 40 anni di incontri, 40 anni di rotture quasi a significare che collante di tutte queste edizioni è stata la voglia di spingere sempre un po’ più in là, qualche centimetro più in alto l’asticella di quel che è e può essere il mondo della fotografia contemporanea. Un modo diretto per dire che la fotografia non è solo documento, ma arte tout court. Certo, alle volte i risultati artistici sono questionabili, alle volte guardando alcuni scatti che non sono scatti quasi ci si dice che se il meglio che il mondo della fotografia sa produrre è questo, allora stiamo freschi. Però, forse, anzi senza forse, è proprio a questo che servono questi appuntamenti: discutere, far discutere e mettersi in discussione. E con 66 esposizioni ad Arles c’è davvero di che parlare. Parlare ma anche rendere omaggio a personaggi che hanno fatto tanto per promuovere la fotografia, come Robert Delpire, cui è dedicata una grande mostra. Per anni direttore, Delpire è stato creatore dei Photo Poche - le piccole monografie fotografie che ricordano i Castori del cinema -  instancabile divulgatore delle immagini, qualsiasi tipo di immagini, ma anche primo editore di Robert Frank, René Burri e tanti altri.

Tra tante esposizioni c'è solo l'imbarazzo della scelta. Fra tutte spicca una mostra che non è una mostra fotografica in senso stretto, però ha un impatto travolgente., Si chiama “Without sanctuary” e raccoglie fotografie e cartoline dei linciaggi subiti dai neri americani a inizio Novecento. Una documento a tratti agghiacciante del razzismo negli Stati Uniti che suona da monito, a pochi mesi dall’elezione di Obama. Tanto, tantissimo è stato fatto. Tanto resta ancora da fare. E non solo in America. Come testimonia una delle esposizioni più belle tra le 66 che costituiscono il denso cartellone di Arles: Ebru, del fotografo turco Attila Durak. Immagini vive che raccontano della grande diversità culturale della Turchia contemporanea, che negli anni si è invece preteso annullare e tacere. Una ricchezza di volti, tradizioni e riti che Durak invece testimonia con semplicità e senza troppa filosofia. Infine, tra le tante, una citazione particolare merita anche la mostra del fotografo ceco Bohdan Holomicek, metà elettricista, metà fotografo ufficiale del presidente Havel. Le sue foto hanno un taglio classico, sono fuorimoda senza mai essere state davvero di moda, eppure raccontano con la stessa semplice, modesta, maestria con cui Kapuscinski, a parole, ha raccontato il mondo.  

Insomma, c’è ancora tempo, poco, per fare un salto ad Arles. Se poi non ne avete abbastanza di fotografia prendete nota. Poco distante, basta andare avanti lungo la costa di un centinaio di chilometri, c’è un altro festival di fotografia da non perdere. A Perpignan, dal 29 agosto al 13 settembre, si tiene la ventunesima edizione del Visa pour l’image, il festival interamente dedicato al fotogiornalismo. Già che ci siete...